A mio avviso quel momento segnò la fine simbolica dell’innovazione radicale/eretica della pratica sindacale (sia chiaro, esperienze innovative, radicali ed eretiche sono proseguite anche negli anni a seguire e anche oggi abbiamo esperienze esemplari, tuttavia in forma meno dirompente rispetto a tutto ciò che si mosse tra l’inizio deli anni 50’ e la fine dei 70’), nonché la genesi di una vera e propria controffensiva della classe padronale, volta a distruggere il sistema di relazioni sindacali consolidatesi dal secondo dopoguerra sino ad allora. Tale controffensiva è ancora in atto (vedi le dichiarazioni del presidente di Confindustria), spetta a “noi” avere il coraggio, la forza e l’umiltà di invertire l’inerzia.
Sono ormai molti anni che, in maniera paziente e incessante, è in atto un processo di erosione e smantellamento di quelle che erano le garanzie conquistate dalle lavoratrici e dai lavoratori all’interno dei posti di lavoro. Le trasformazioni del mercato del lavoro, i continui attacchi della componente padronale all’interno di un contesto di economia globalizzata, hanno profondamente differenziato il lavoro sotto numerosi aspetti che appaiono vieppiù rilevanti sul piano individuale e collettivo, dalla “liberalizzazione” dei licenziamenti, alla istituzionalizzazione dei rapporti di lavoro precari, sino agli attacchi al legittimo esercizio dei diritti sindacali.
In questi tempi pandemici, di crisi politica e sociale, assume una valenza strategica rivendicare e lottare per un lavoro dignitoso, un welfare che sia davvero universale, una fiscalità in grado di pesare soprattutto nei confronti dei settori più ricchi della società, contro ogni discriminazione di genere e razza. Insomma è necessario lottare per una società che metta al centro i diritti degli esseri umani e tutte quelle attività che curano e sviluppano la vita stessa.
In particolare, nel contesto appena descritto, il sindacalismo sociale può giocare un ruolo determinante in quanto agente del conflitto in questo paese. Ciò perché forme sindacali innovative possono legittimarsi a vantaggio dei milioni di lavoratrici e lavoratori, precarie e precari, nonché a vantaggio di tutti quei settori della società che, di fatto, subiscono una vera e propria conventio ad excludendum da parte delle istituzioni statali. Sono sempre di più le fasce di popolazione che vengono spinte ai margini dell’ordinamento giuridico grazie al combinato disposto tra provvedimenti legali e provvedimenti di natura giudiziale, che stanno trasformando in maniera “regressiva” il complesso di diritti e doveri su cui poggia il nostro sistema repubblicano.
Da questo punto di vista l’esercizio di forme di potere/contropotere sindacale, dentro e fuori i luoghi di lavoro, può dare spazio di agibilità e di “cittadinanza” a tutte le soggettività spinte ai margini della vita politica e sociale del paese. Come già è accaduto nella nostra storia repubblicana, una pratica sindacale radicale e innovativa può diventare un canale incandescente, in cui indirizzare lo scontro tra potere costituente (come ontologicamente è l’esercizio della pratica sindacale) e potere costituito (politico/istituzionale) e, in questa fase politica, in grado di assurgere a significante complessivo della lotta per una radicale trasformazione di questo paese, sia sul piano sociale che politico. Come detto, tale canale va attraversato e alimentato, facendolo vivere di conflitti/rivendicazioni/elaborazione di un pensiero radicale. Ma per poter fare questo, credo siano due le questioni paradigmatiche da cui partire e su cui aprire un dibattito pubblico che possa comprendere lavoratrici e lavoratori, realtà sindacali e sociali, giuristi militanti.
E’ indubbio che lo Statuto dei lavoratori abbia rappresentato la conclusione della lunga marcia di acquisizione della cittadinanza del lavoro nell’economia e nella società italiana, sulla scia di un percorso che accomuna le società occidentali nel XX secolo. Le trasformazioni avvenute nel corso del ventesimo secolo sono debitrici all’organizzazione dei lavoratori, segnatamente alle organizzazioni sindacali che hanno organizzato il conflitto, incanalato le domande dei lavoratori attraverso la contrattazione collettiva, determinando un lento ma inesorabile cambiamento degli assetti politici delle società europee: allargamento del voto (cittadinanza politica), definizione dei diritti sociali collegati alla partecipazione al lavoro.
Tuttavia, ad oggi, quanto stabilito dallo Statuto dei lavoratori (in particolare in relazione al titolo III), risulta essere una fotografia “bugiarda” di quelle che sono le effettive relazioni industriali e sindacali all’interno dei luoghi di lavoro. Le lavoratrici e i lavoratori sono sempre più succubi delle decisioni prese dalle componenti sindacali per conto e nome proprio, senza alcuna possibilità di poter incidere sulle decisioni prese; inoltre molte componenti sindacali rappresentative in azienda vengono di fatto escluse dai tavoli di trattativa contrattuale e più in generale dall’esercizio complessivo dei diritti sindacali.
Da questo punto di vista, è ormai consolidata la critica all’inefficacia della portata del testo originario dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, il quale indicava un concetto di rappresentatività “presuntiva”, derivante dall’esperienza unitaria dei sindacati confederali. Molti sono stati i tentativi – in particolare di natura giudiziale o tramite accordi tra le componenti sindacali o di natura referendaria – di rinnovare la rappresentanza sindacale. Già nel ’74, infatti, la Corte Costituzionale indicava la necessità che il diritto alla rappresentanza delle associazioni sindacali fosse connesso ad un criterio di “effettiva rappresentatività” e ciò al fine di permettere l’esercizio della rappresentanza anche a quelle realtà sindacali effettivamente radicate all’interno dell’unità produttiva. Come già anticipato, vari sono stati i tentativi di modificare il sistema della rappresentanza sindacale, provando a dare centralità alla scelta dei lavoratori e delle lavoratrici, da questo punto di vista l’intuizione delle R.S.U. andava in questa direzione, permettendo di votare i propri rappresentanti sindacali (sappiamo poi che l’utilizzo che se ne fa non ha portato a quella democratizzazione sui luoghi di lavoro sperata). Con la sentenza 231 del 2013, si è provato a porre rimedio all’esito nefasto del referendum del 1995, che determinò esiti paradossali in relazione all’intenzione dei promotori del referendum, ossia sottrarre il monopolio della rappresentanza ai sindacati confederali; gli stessi, con ogni probabilità, non avevano calcolato una conseguenza restrittiva del nuovo testo della norma: un sindacato che non avesse stipulato un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva interessata, veniva di fatto escluso. Ebbene la predetta sentenza, dichiarando incostituzionale l’art. 19 primo comma lettera b, è stata in grado di porre rimedio rimedio a quella forma impropria di sanzione del dissenso nei confronti del sindacato maggiormente o ampiamente rappresentativo nell’unità produttiva, ma non firmatario dei contratti collettivi.
Alla luce di queste considerazioni, in primo luogo è fondamentale rivendicare una legge che affermi che i diritti di democrazia e di rappresentanza sindacale sono in capo alle lavoratrici e ai lavoratori. Una legge, pertanto, che permetta alle lavoratrici e ai lavoratori di scegliersi la propria rappresentanza sindacale, senza dover fare i conti con l’odioso criterio selettivo della sottoscrizione dei contratti collettivi, nonché riconosca a chi esercita la rappresentanza sindacale la facoltà di sedersi ai tavoli di trattativa ed infine sancisca l’obbligo, per il datore di lavoro, di invitare al tavolo tutte le rappresentanze presenti in azienda.
In queste settimane varie componenti politiche hanno esultato dichiarando l’abolizione del c.d. decreto Salvini. Tralasciando di entrare nel merito della portata delle piccole modifiche attuate alle norme in questione, c’è da osservare che l’impianto repressivo, volto a criminalizzare anche pratiche di lotta sindacali, è tutt’ora in essere.
Infatti rimangono tutt’ora in vigore le due fattispecie delittuose tradizionalmente volte a contrastare il dissenso politico e le lotte sociali dei movimenti politici e sindacali del secolo XX: il delitto di invasione di terreni o di edifici e il delitto di blocco stradale ovvero di ostruzione o ingombro di binari.
Nello specifico, l’art. 23 del decreto legge 113/2018, modificando l’art. 1 d.lgs. 22 gennaio 1948 n. 66, ha “ripenalizzato” il blocco stradale ordinario, e l’ostruzione o l’ingombro di binari, al fine di “garantire, ai massimi livelli, il diritto alla libertà di circolazione di cui all’art. 16 della Costituzione, mediandone il disagio o la compressione derivante dall’esercizio di altri interessi e libertà contrapposti, quali la libertà di manifestazione o di sciopero”. E’ evidente come tale norma ha penalizzato e di fatto reso impossibile l’esercizio dei diritti sindacali che trovano il proprio fondamento politico e giuridico nell’esercizio di un antagonismo nei confronti della controparte padronale.
La disposizione in questione ha sollevato, da sempre, ampie riflessioni sul difficile bilanciamento fra il diritto di salvaguardare la sicurezza e la libertà di circolazione e la piena attuazione del diritto di manifestare il proprio pensiero e, di conseguenza, il proprio eventuale dissenso politico. E’ accaduto di frequente che, proprio attraverso il reato di blocco stradale, intere categorie di lavoratori o associazioni di categoria abbiano espresso la propria protesta verso decisioni politiche ritenute pregiudizievoli. Si pensi, ad esempio, alla recente ostruzione delle reti stradali da parte dei pastori sardi, che protestavano per il crollo del prezzo del latte, o ai recenti blocchi dei grandi snodi logistici, messi in atto da alcuni sindacati per entrare nella trattativa per il rinnovo del contratto collettivo nazionale del settore della logistica. Al momento è opportuno ricordare che i lavoratori e le lavoratrici rinviati a giudizio per il reato di cui sopra, contestato nell’ambito di proteste sindacale (dalla vertenza dei pastori sardi alla vertenza Italpizza), sono circa 100, un numero davvero inquietante.
Inoltre rimangono tutt’ora in vigore le disposizioni presenti nel decreto Salvini Bis, che hanno trasformato da contravvenzioni a delitti alcune fattispecie, tra cui l’utilizzo di fuochi d’artificio o fumogeni e il travisamento.
Dunque è evidente come tale impianto repressivo svuoti di qualsiasi efficacia conflittuale l’esercizio della pratica sindacale, lasciando, nei fatti, spazio solo alle componenti che agiscono sul piano della concertazione e sono “ben volute” dalla componente padronale.
Per essere all’altezza della fase politica che stiamo attraversando, e per poter immaginare una azione sindacale efficace, in grado di portare il conflitto dentro e fuori i luoghi di lavoro, non possiamo prescindere dall’immaginare forme innovative della democrazia e rappresentanza sindacale e dobbiamo chiedere a gran voce una (vera) abolizione dei “decreti sicurezza”. Sono due assi necessari per riaccendere il conflitto in questo paese. Apriamo il dibattito.