Secondo la Corte di Cassazione il perimetro va allargato anche alle “clausole generali”
Con la recentissima sentenza della Suprema Corte (Cass. n. 14777/2021 del 27.05.21, Rel. Ponterio Carla) è tornata davvero di attualità la questione della tipizzazione contrattuale degli illeciti disciplinari.
È sempre apparsa interessate la problematica del giudizio di proporzionalità e adeguatezza della sanzione allorché l’illecito disciplinare sia stato tipizzato dalla contrattazione collettiva, ponendosi in tal caso il quesito se, e fino a che punto, il sindacato del giudice ne sia vincolato.
Ed un limite rilevante all’attività ermeneutica del giudice è stato posto dalla legge n. 92/2012 c.d.” Legge Fornero” che ha previsto l’annullamento del licenziamento e la tutela reintegratoria attenuata (cioè con conseguenze economiche limitate entro il tetto delle dodici mensilità) ai sensi del novellato art. 18, comma 4, St. lav., oltre al caso in cui il fatto contestato non sussiste, anche al caso in cui il fatto, pur sussistente, rientri in una delle condotte punibili con sanzione conservativa previste dal Contratto Collettivo applicabile. E quindi laddove la valutazione disciplinare di una certa condotta sia direttamente compiuta dal contratto collettivo, con la previsione di una sanzione conservativa, è prevista in caso di illegittimità del licenziamento l’applicazione della tutela reintegratoria, al pari di quanto avviene nei casi di insussistenza del fatto contestato
Si è discusso in dottrina se la tutela reintegratoria attenuata possa essere accordata soltanto nel caso di precisa e compiuta tipizzazione contrattuale del fatto come meritevole di sanzione conservativa o anche nell’ipotesi in cui il fatto, non specificamente tipizzato, possa essere ricondotto ad una norma contrattuale generica o elastica.
I primi interventi giurisprudenziali si sono indirizzati verso un’interpretazione restrittiva, divenuta a breve dominante, secondo la quale il licenziamento sarebbe meritevole della tutela reintegratoria, alla luce del riformulato articolo 18 comma 4, della legge n. 300/70, soltanto ove il fatto contestato o accertato sia espressamente contemplato dalla previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, sicché non sarebbe consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi come punibile con sanzioni conservativa, applicare la tutela reintegratoria.
Con la sentenza n. 14777/2021 la Suprema Corte ha però ribaltato il precedente orientamento affermando che anche le fattispecie disciplinari punite con sanzioni conservative e descritte attraverso clausole generali possono dare luogo alla reintegrazione; ciò in quanto il dato dirimente, ai fini dell’applicazione della tutela reale o indennitaria, non può risiedere nella mera tipizzazione della condotta disciplinare in una formula contrattuale collettiva per cui, rispetto ai fatti contestati e posti a fondamento del licenziamento, è indiscutibilmente previsto l’unico rimedio della misura conservativa; allo stesso regime di tutela reale devono poter accedere le fattispecie inadempimenti individuate dai contratti collettivi e dai codici disciplinari attraverso formule aperte, in relazione alle quali si prevede una sanzione di carattere conservativo.
Nel caso in esame la Cassazione esprime questo concetto con l’esempio della “negligenza lieve“, osservando che il giudice accerta esclusivamente se il fatto contestato alla base del licenziamento disciplinare rientra in questa nozione giuridica, senza spingersi a valutare se, rispetto ad una condotta di negligenza lieve, sia proporzionata la sanzione espulsiva o conservativa. In tal caso il giudice non compie un autonoma valutazione di proporzionalità, che impedirebbe la tutela reintegratoria, ma si limita ad una attività di sussunzione dei comportamenti inadempimenti contestati al lavoratore nella previsione contrattuale espressa tramite le clausole generali.
Le fattispecie punitive previste dai contratti collettivi sono raramente espresse secondo un principio di tassatività e hanno, invece, in prevalenza carattere indeterminato, ricollegandosi ai generali doveri di diligenza e fedeltà. In questo scenario, afferma giustamente la Cassazione, limitare la tutela reale ai soli casi in cui la sanzione conservativa sia collegata a fatti tipizzati nella loro dimensione materiale equivale ad escludere arbitrare arbitrariamente un’ampia serie di altre situazioni meritevoli del medesimo regime di tutela. Si realizzerebbe un irrazionale disparità di trattamento tra comportamenti non gravi tipizzati e comportamenti di pari rilievo non espressamente previsti dal contratto collettivo. L’ingiustificato trattamento differente di situazioni omologhe, rappresenta un evidente conflitto con il principio di uguaglianza, laddove si preclude l’accesso alla tutela reintegratoria per fattispecie di pari gravita rispetto a quelle cristallizzate nella norma contrattuale.
Va da ultimo considerato che il caso al vaglio della Cassazione riguardava un licenziamento intimato in periodo precedente all’entrata in vigore delle successive riforme del D.lgs. 23/2015, c.d. “Jobs Act” che ha portato alle più drastiche conseguenze il processo di progressiva riduzione delle tutele contro il licenziamento illegittimo cominciato dalla Legge Fornero. In relazione al licenziamento disciplinare, l’art. 3 del Dlgs 23/15 ha ristretto ulteriormente l’ambito di applicabilità della tutela reintegratoria, riservandola esclusivamente al caso in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, con l’ulteriore precisazione che resta estranea ogni valutazione circa la proporzionalità del licenziamento e non viene ricompreso nella norma qualsiasi riferimento alle fattispecie disciplinari tipizzate dalla contrattazione collettiva. Evidentemente il legislatore del Jobs Act, constatato che nel dibattito in corso la teoria del fatto giuridico stava diventando prevalente nell’esegesi giurisprudenziale, ha voluto drasticamente contrastare tale interpretazione, ribadendo la linea politica volta alla limitazione della discrezionalità del giudice nella scelta dei rimedi sanzionatori applicabili , al fine di rendere più contenuti e prevedibili per il datore di lavoro i costi del licenziamento illegittimo.