Con il Decreto Legge 13 marzo 2021, n. 30 il legislatore ammette la possibilità di fruire dei congedi (indennizzati o no) solo a condizione che non si possa ricorrere allo Smart Working (“Solo ed esclusivamente nelle ipotesi in cui la prestazione lavorativa non può essere svolta in modalità agile”), inoltre, nel medesimo Decreto si pone in alternativa l’utilizzo dei c.d. bonus baby sitter allo Smart Working, tuttavia in queste poche note mi concentrerò sul primo aspetto di questa spinosa (e giuridicamente pericolosa) vicenda.
Nelle ultime 72 ore, tante sono state le voci che dalla politica si sono alzate, chi per criticare tale scelta del Legislatore, chi invece per difendere la bontà del provvedimento, con uscite a dir poco “imbarazzanti”; è il caso ad esempio della Ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti che ha dichiarato: “Lo Smart Working non è come avere l’orario d’ufficio traslato a casa, è lavoro agile, se non è possibile si può chiedere il congedo parentale”.
Questa frase, se ad un prima lettura potrebbe sembrare un enorme scivolone da parte di chi evidentemente non ha contezza di Istituti normativi volti a proteggere i lavoratori e le lavoratrici, come il congedo parentale, a mio avviso, va intesa come dichiarazione ideologica e di intenti, funzionale a erodere un altro piccolo pezzo di tutele in capo alle lavoratrici ai lavoratori, in una fase politica (e di politica del diritto) in cui è reale il rischio di una continua valorizzazione dei tempi di non lavoro (funzionali alla ristrutturazione delle relazioni industriali e sindacali), si gioca anche sulla retorica del lavoro “Smart”.
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Ciò premesso, basta aprire qualsiasi manuale di diritto del lavoro per renderci conto dell’abuso che milioni di lavoratrici e lavoratori stanno subendo.
A partire dalla protezione del diritto fondamentale alla maternità, la normativa sul congedo parentale ha subito, nel tempo, profonde “torsioni”, che hanno portato in risalto, in primis, l’interesse del bambino, inteso anche in un’accezione relazionale e affettiva (e tale, per ciò, da abbracciare le delicate vicende delle adozioni e degli affidamenti), e che hanno incarnato, in secondo luogo, il tentativo di creare condizioni più favorevoli ad un’effettiva conciliazione tra il diritto alla (e più ampiamente il desiderio di) maternità e il diritto al lavoro. Partendo da questo nucleo la ratio dell’Istituto si è ampliata ulteriormente e si potrebbe sintetizzare come quella di consentire al genitore – senza distinzione tra uomo e donna – di svolgere il proprio ruolo genitoriale. Sul piano sociale, dunque, l’Istituto è posto a salvaguardia del diritto alla genitorialità e alla crescita serena del figlio.
E infatti, secondo un consolidato – anzi granitico – orientamento dottrinario e giurisprudenziale, il congedo parentale è un’astensione facoltativa dal lavoro finalizzata all’accudimento del bambino.
Sul punto, la Corte di Cassazione ha più volte sottolineato la natura del congedo parentale, che va inteso come un diritto potestativo del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e ha lo scopo di consentirgli il soddisfacimento dei bisogni affettivi e di cura della prole.
Il fatto che il congedo parentale presuppone una astensione dal lavoro, lo si può anche desumere dalla disciplina previdenziale, e ciò in quanto la scelta di usufruire del congedo parentale è economicamente penalizzante, perché a fronte dell’astensione del lavoro è previsto il diritto del prestatore a percepire una indennità INPS pari al 30% della normale retribuzione.
Infine, è utile segnalare che in alcuni casi, entrambi i genitori possono contestualmente astenersi dal lavoro, ad esempio in caso di malattia di un figlio che ha un’età inferiore agli 8 anni. Tuttavia, è opportuno segnalare che il congedo in tal caso non è retribuito.
Quindi, chiarito che il congedo è di fatto una interruzione della prestazione lavorativa, ne risulta ontologicamente evidente il carattere “alternativo” alla prestazione di facere su cui si connota una attività di lavoro; va da se che è evidente la contraddizione macroscopica nel pensare di rendere compatibile tale diritto in capo alle lavoratrici e ai lavoratori con una forma modalità di svolgimento della prestazione lavorativa comunque riconducibile al vincolo della subordinazione.
Basterebbero queste poche note per rendere evidente l’illegittimità delle disposizioni previste all’interno del Decreto Legge 13 marzo 2021, n. 30, tuttavia, se per assurdo si volesse ritenere che lo Smart Working, anche se tempo di lavoro, permetta comunque alla lavoratrice o al lavoratore di potersi organizzare i propri tempi di vita in modo tale da far venire meno il fondamento giuridico, storico, sociale e politico su cui si fondano alcuni istituti di protezione, ci sarebbe comunque da rilevare che lo “Smart Working” a cui sono sottoposti da ormai un anno a questa parte milioni di lavoratrici e lavoratori non può essere inteso con le parole utilizzate dalla ministra Bonetti: “lo Smart Working non è come avere l’orario d’ufficio traslato a casa, è lavoro agile”.
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E infatti, con l’espressione “lavoro agile”, di conio italiano, si prevede una specifica disciplina organica in materia, ossia gli artt. 18-23 l. n. 81/2017 deve intendersi quella:
Osservando, allora, il lavoro agile promosso dal legislatore dell’emergenza, può notarsi come esso non corrisponda né allo Smart Working (di matrice europea) né al lavoro agile di cui alla L. n. 81/2017, nonostante quest’ultima venga espressamente richiamata dalle disposizioni “pandemiche”. Nel lavoro agile dell’emergenza, infatti, non è ravvisabile alcuna flessibilità spazio-temporale.
Il luogo di lavoro ha sempre finito per coincidere con il domicilio dei lavoratori e delle lavoratrici e neppure è stato possibile programmare rientri in azienda, così da realizzare l’alternanza del lavoro agile. Quanto all’orario di lavoro, il lavoro agile della pandemia “mima in tutto la scansione del lavoro in ufficio” (quindi si cara Ministra, il lavoro agile prevede un orario d’ufficio), poiché nella maggior parte delle esperienze è stato osservato l’orario aziendale, dovendosi anzi segnalare come spesso sia stata lamentata la permanente reperibilità dei lavoratori “remotizzati”. Ma soprattutto, in questa fase emergenziale, il lavoro agile ha subito una mutazione funzionale: da presunto strumento di incremento della competitività e di conciliazione vita-lavoro si è trasformato in presidio prevenzionistico e di “difesa” della produttività.