Questa ipotesi specifica di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è oggi contemplata in due differenti norme applicabili “ratione temporis” con riguardo alla data di assunzione del lavoratore: si tratta dell’art. 18 comma 7 della L. 300/70 (inidoneità sopravvenuta), e dall’art 2, 4 comma del D.Lgs. 23/2015 (disabilità sopravvenuta).
Le due norme, che si riconducono ad ipotesi sostanzialmente ascrivibili nella cornice della direttiva 2000/78 CE, nel contemplare la tutela reale quale rimedio previsto, modulano diversamente il risarcimento accordabile dal giudice (nel primo caso – art. 18 co. 7 – il risarcimento è potenzialmente limitato alle 12 mensilità; in quello previsto dall’art. 2 non vi è un limite sul danno risarcibile).
La Direttiva comunitaria sopracitata – che peraltro allarga ulteriormente la platea dei beneficiari (essendo estesa la tutela a tutte le persone che per una minorazione fisica, psichica, sensoriale o intellettuale soffrono di un deficit di integrazione nella vita professionale o nel rapporto di lavoro) – è stata recepita in Italia con l’introduzione dell’art 3 bis nel D. Lgs. 216/2003 (ad opera della L. 213/99).
Detta normativa introduce la fondamentale previsione delle “soluzioni ragionevoli per i disabili” per la protezione dell’interesse alla partecipazione al lavoro ed alla conservazione del rapporto di in caso di sopravvenuta inidoneità allo svolgimento della mansione; a tali soluzioni la legge chiama l’imprenditore, nei limiti di una comprovata sproporzione degli oneri finanziari necessari alla loro implementazione.
La questione degli ACCOMODAMENTI RAGIONEVOLI diventa, dunque, il fulcro su cui costruire un percorso giudiziale per la possibile resistenza al licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore divenuto inabile.
La previsione normativa di carattere aperto può essere invocata e riempita dunque di contenuti in ragione delle diverse situazioni e condizioni personali del lavoratore cui è predicabile.
Le indicazioni comunque derivabili dalla direttiva e dalla stessa convenzione delle Nazioni Unite prevedono i più vari interventi di natura sia materiale che strutturale per garantire l’effettività dei diritti dei più fragili: tali possono essere considerate le modifiche ergonomiche della postazione di lavoro, ovvero la ristrutturazione degli ambienti di lavoro per rendere effettivo il diritto del lavoratore; vi è poi la previsione del trasferimento e del distacco del lavoratore; la riarticolazione dell’orario con l’esclusione dai turni ovvero il ricorso allo smart working). E tutte tali misure possono ricondursi all’interesse specifico del mantenimento del posto di lavoro del lavoratore.
L’adibizione a mansioni equivalenti o in mancanza inferiori, costituisce infatti solo uno dei “ragionevoli adattamenti” per il datore di lavoro. Tali impatti devono essere tutti prospettati, valutati e scrutinati nel giudizio (cfr. Cass. Sez. Lav. 6798/2018).
Gli oneri probatori, a carico del datore di lavoro, devono essere concreti e rigorosi (con previsione anche del vaglio di tutte le soluzioni organizzative concretizzabili) volte a scongiurare il licenziamento, ed il datore di lavoro, si potrà liberare solo ove dimostri che gli “adattamenti” anche di natura organizzativa per reperire le mansioni, gli imporrebbero la sopportazione di un onere finanziario sproporzionato ed irragionevole.
Di recente la Suprema Corte con sentenza n. 6497 del 2021 ha analizzato la portata anche degli oneri probatori nel processo affermando: Pertanto, a fronte del lavoratore che deduca e provi di trovarsi in una condizione di limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature secondo il diritto dell’Unione europea, quale fonte dell’obbligo datoriale di ricercare soluzioni ragionevoli che potessero evitare il licenziamento causato dalla disabilità, graverà sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto all’obbligo di “accomodamento” ovvero che l’inadempimento sia dovuto a causa non imputabile.
In tale situazione di riparto non è certo sufficiente per il datore semplicemente allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili, in cui ricollocare il lavoratore, come si trattasse di un ordinario repéchage, così creando una sovrapposizione con la dimostrazione, comunque richiesta, circa l’impossibilità di adibire il disabile a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute.
Né spetta al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro, sovvertendo l’onere probatorio e richiedendo una collaborazione nella individuazione degli accomodamenti possibili non prevista neanche per il repéchage ordinario in mansioni inferiori, oramai esteso dal recesso per sopravvenuta inidoneità fisica alle ipotesi di soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale (ab imo, Cass. n. 21579 del 2008; conf. Cass. n. 23698 del 2015; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019)
La previsione normativa dei ragionevoli adattamenti, dunque, confliggendo in modo aperto con il concetto di insindacabilità delle scelte imprenditoriali fondanti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, legittima, dunque il sindacato del giudice sul punto. Il giudice potrà così valutare il corretto bilanciamento degli interessi in gioco contemperando l’art. 41 (tutela della libertà di iniziativa economica privata) e l’art. 4 Cost. (diritto al lavoro).