Oggi cosa è dentro e cosa è fuori dall’azione sindacale? Per molti non c’è più fabbrica in cui incontrarsi, o il datore di lavoro è una piattaforma digitale. Come riorganizzare la partecipazione nella frantumazione? Strumenti e pratiche nelle esperienze europee, verso un sindacalismo della vita.
L’art. 1 della Costituzione ancora recita al primo comma: “L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro”; al secondo comma, invece: “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Certo, è inevitabile leggere quest’articolo oggi e non ridere, o piangere, a seconda dello stato emotivo e materiale di chi lo considera e dalla prospettiva a partire dalla quale lo si osserva. Ma una cosa ancora viva questo articolo ce la dice tuttora: la questione della democrazia è strettamente legata a quella dell’organizzazione del lavoro, alla funzione ed al potere che chi contribuisce all’elevazione materiale e spirituale della società di fatto esercita sulle decisioni politiche ed economiche; attiene, inoltre, ai confini ed ai limiti della possibilità di questo contributo, più in generale alla quantità e qualità della dignità che l’organizzazione statuale e transnazionale riserva a tutte e tutti coloro che, a qualsiasi titolo, abitano un territorio; attiene, quindi, certamente, alla capacità cognitiva ed organizzativa di una larga comunità di persone, di un’auspicabile soggettività attiva che non si limita a subire gli effetti di questo o quell’indirizzo politico, sociale ed economico, ma lotta per determinarlo.
Al sindacato, in quanto organizzazione di lavoratrici e lavoratori portatrice di un proprio interesse collettivo, deve essere riconosciuta una sfera di autonomia propria e non derivata da quella individuale dei singoli lavoratori. Il gruppo organizzato è qualcosa di diverso dalla somma degli individui che lo compongono, così come l’interesse collettivo è qualcosa di diverso dalla somma degli interessi individuali dei suoi membri. Il sindacato agisce in nome proprio, pur perseguendo l’interesse collettivo di cui è titolare. Nonostante sfugga dalla rappresentanza volontaria civilistica, nel senso che non rientra nell’istituto del mandato con rappresentanza – ex art. 1387 e ss. e 1704 e ss. c.c. – il nesso che lega all’organizzazione sindacale i lavoratori appartenenti al gruppo professionale è pur esso qualificato, nel linguaggio corrente, come rapporto di rappresentanza. I problemi che nascono da questo rapporto attengono al grado di consenso che l’azione sindacale consegue all’interno del gruppo professionale rappresentato. In realtà, dunque, sono problemi di democrazia sindacale.
Diversa è la nozione di rappresentatività. Essa, in primo luogo, è nozione pregiuridica (appartenente alla sociologia ed alla scienza politica), definibile come la capacità dell’organizzazione di unificare i comportamenti delle lavoratrici e dei lavoratori in modo che essi operino non ciascuno secondo le proprie scelte ma, appunto, come gruppo. Questa nozione è stata via via fatta propria dal legislatore, quando ha inteso regolare alcuni aspetti della dinamica delle relazioni industriali.
Diventa importante oggi interrogare questo piano alla luce delle profonde trasformazioni del diritto del lavoro e delle concrete modalità di organizzazione produttiva della forza lavoro, perché la rappresentatività determina un problema particolarmente acuto quando serve a individuare i soggetti legittimati a stipulare contratti collettivi che possono derogare, integrare o sostituire la norma legale, producendo differenze migliorative delle condizioni di lavoro stabilite dalla legge, mai in peius.
A tal proposito, mi sembra utile ricordare la lotta giudiziaria – oltre che sindacale – tesa a contrastare il tentativo di restringimento della realizzazione del pluralismo sindacale a livello aziendale, in particolare relativamente alla possibilità di partecipare alle elezioni delle RSU (costituendo ciò solo una parte delle doglianze portate dinanzi all’autorità giudiziaria), tentativo non propriamente riuscito ma portato avanti da CGIL, CISL e Uil di concerto con Confindustria che si è concretizzato nel Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014. USB – Unione sindacale di base – conveniva in giudizio i citati firmatari dell’accordo, al fine di far accertare e dichiarare la nullità di alcuni suoi punti ovvero l’intero accordo, sulla base del fatto che, tentando l’accordo stesso un’interpretazione autentica e restrittiva dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori relativo alla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, costringeva le controparti – e la CGIL in particolare – ad esporsi, dando un’interpretazione inclusiva dell’accordo medesimo. Perciò, nell’Ordinanza del 15.05.2015 emessa dallo stesso Tribunale di Roma col procedimento con RG n. 19211/14, si legge che “la sottoscrizione dell’accordo in questione (…) si configura come un contratto di diritto comune, non impedisce alle odierne parti ricorrenti di esercitare tutti i diritti sindacali riconosciuti e tutelati dalla Costituzione e dalla legge, a prescindere dalle limitazioni nel suddetto indicate”.
Se i passaggi sino a qui descritti hanno come obiettivo una seppur non esaustiva ricostruzione del fenomeno della rappresentanza e della rappresentatitività in senso formale, occorre focalizzarsi, adesso, sulla sostanza della rappresentatività, ovvero occorre chiedersi cosa include e cosa esclude oggi l’azione sindacale e quali categorie o soggettività sono effettivamente considerate nell’universo sindacale contemporaneo.
Un primo elemento che va analizzato per riqualificare la rappresentatività dello strumento sindacale, si concretizza nella capacità di mobilitazione: si tratta di sostituire al mero dato numerico (la quantità di iscritti alla O.S.) la reale partecipazione alla vita e alle rivendicazioni sindacali di ciascun iscritto/a. Ciò intendo per “rappresentazione”, mutuando dal linguaggio anche teatrale, in cui il corpo e il suo senso hanno centralità.
Sovente accade che neo iscritti ad organizzazioni di base, già provenienti da Organizzazioni confederali, approdino all’organizzazione di base senza avere alcuna contezza della propria condizione di sfruttamento, o della violazione, nei loro confronti, di diritti fondamenti attinenti la sfera lavorativa. Penso ai diritti sindacali certamente, ma anche ai diritti economici o a quelli che attengono alla conciliazione lavoro/vita ovvero lavoro/salute psicofisica, che attengono alla fondamentale sfera della tutela dell’integrità della persona, constatazione che fa emergere una carenza di capacità di formazione e informazione anche della struttura sindacale stessa.
E allora, la questione oggi non è tanto quale grado di rappresentatività (intesa come misura della rappresentanza) abbia ciascun sindacato, ma quali interessi collettivi ciascun sindacato è in grado di intercettare, rappresentare e tutelare.
Mi riferisco a tutte quelle situazioni oggettive che necessiterebbero dell’azione sindacale, riqualificata e contemporaneizzata: al lavoro non remunerato, come il lavoro di cura e riproduttivo, intendendo per tale qualcosa di diverso dal lavoro domestico che ha un proprio CCNL, ad esempio; o agli ambiti relativi al sostegno al reddito, quale forma di remunerazione, ad esempio, del lavoro riproduttivo, o dell’estrazione di valore dalla nostra intera vita, come accade con la condivisione di gusti, tendenze e attitudini attraverso i social network, funzionali all’accumulazione di dati e profitti legati alla loro compravendita; al lavoro nelle piattaforme, che non a caso rientra in quella economia che viene definita dei “lavoretti” (gig) e che invece moltissime persone esercitano come unica possibilità di lavoro; all’universo che viene indentificato dal diritto come formazione, ma che sottende nient’altro che allo sfruttamento della forza lavoro: parlo degli stage, dei tirocini, di quel modello introdotto dalla alternanza scuola – lavoro, resa obbligatoria nel 2015 dalla legge 107 c.d. Buona Scuola, che prevede 400 ore di formazione dedicata al lavoro nell’ultimo triennio dei tecnici e dei professionali e 200 ore in quello dei licei. Occorre poi tenere in considerazione anche tutta quella parte del lavoro nello spettacolo, ad esempio, che non è considerato lavoro neppure ai fini contributivi; il lavoro culturale in generale (penso agli ambiti della ricerca, della scrittura e della parola), sia in ambito indipendente che in ambito accademico (ed in questo senso mi riferisco agli anni di lavoro gratuito che, nelle università, centinaia di migliaia di ricercatori e ricercatrici svolgono con la promessa di un lavoro futuro e per accumulare i titoli per l’accesso ad assegni di ricerca o concorsi), e tutto il c.d. lavoro immateriale, ivi incluso l’ambito giornalistico; l’accesso e la qualità dei servizi pubblici che sono funzionali tanto al più sereno svolgimento della propria prestazione di lavoro, quanto al diritto alla gratuità di alcune prestazioni, che infatti l’ordinamento definisce essenziali limitando, nel loro ambito, il diritto di sciopero (sanità, trasporto pubblico, scuola e istruzione, ecc.).
Un’idea, allora, potrebbe essere quella del sindacato diffuso, territoriale, locale, vicino per territorio a chiunque abbia difficoltà non solo sul lavoro, ma anche connesse alla sua mancanza o alla sua insufficiente remunerazione (l’impossibilità di avere una casa), o alla sofferenza psichica che tali situazioni determinano sempre più diffusamente. Ci sono esperienze di sindacalismo di base in Italia che hanno già intrapreso questi percorsi: potenziarli può incidere proprio sulla rappresentatività reale dell’azione sindacale.
Un altro piano di intervento sindacale necessario da potenziare (rectius creare) attiene al lavoro delle donne, all’accesso al lavoro stesso, alla discriminazione e alle molestie sessuali e di genere, come si preoccupano di fare la Convenzione ILO n. 190 e la connessa raccomandazione n. 206, ratificate dall’Italia il 1 febbraio 2021, con la legge n. 4 del 15 gennaio 2021 (che entrano in vigore 12 mesi dopo la comunicazione della ratifica da parte dello Stato Italiano, agli organi ILO preposti a riceverla).
Esistono in Europa, in Spagna in particolare, esperimenti sindacali portati avanti dalle donne per tutte e tutti, definite “femminismo sindacalista”, ma anche “sindacalismo femminista” che si occupano di come la parola può generare cose, della produzione di conoscenza, di sperimentare come si possono aprire possibilità, nell’ambito del conflitto, in un dialogo transnazionale.
La lotta sindacale delle donne apre la prospettiva ad una nuova visione della classe, frutto del modo di riproduzione del lavoro subordinato, verso un sindacalismo della vita (come nella realtà dovrebbe essere il sindacalismo), che non segnala solamente dove viene estratto il valore attraverso il salario, ma che concentra l’attenzione su tutto il mondo che è connesso con il salario e che dipende dalla subordinazione della possibilità stessa di vivere al salario stesso (ad esempio istruirsi, stare in salute, ecc.). Tutto ciò mettendo al centro la condizione materiale dell’esistenza e come questa condizione sia permanentemente sottomessa alla violenza, per costruire un movimento che sostenga le donne e le persone che resistono e lottano contro di essa, che costruisca autoprotezione e capacità di negoziazione: un movimento che abbia un impatto anche nella vita delle donne, delle persone eterodissidenti e che vada all’origine, non si preoccupi solo dell’apice del problema.
Con la dicitura Sindacalismo femminista ci si concentra sui limiti di un determinato sindacalismo tradizionale, sottolineando il fatto che la divisione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo – cioè tra il lavoro che è remunerato e il lavoro che non lo è – è una divisione politica e arbitraria, che esiste non perché non si riconosce dove si produce la ricchezza sociale e dove non si produce, ma per imporre una subordinazione di un universo che, pur producendo ricchezza, non ha diritto ad un salario: una sorta di embargo di intere categorie, che subiscono un processo di vulnerabilizzazione, di espropriazione e estrazione di energie vitali fondamentali.
Si entra così, con l’azione sindacale, nel terreno della redistribuzione della ricchezza, un terreno di natura sociale, lì dove l’ordine socio economico intreccia la realtà della classe, dell’origine e del genere.
La vecchia macchina sindacale si è rotta, non si ha più la fabbrica in cui incontrarsi, per molte persone il padrone si è trasferito in una piattaforma digitale o in una applicazione, non si lavora per più di due anni con le stesse persone, e allora come si può organizzare una partecipazione ed un’azione sindacale in tali condizioni di frantumazione? Imporre legislativamente la costruzione di spazi sindacali democratici all’interno delle nuove forme di organizzazione del lavoro può essere un ambito di lotta.
Questi sin qui esposti possono essere alcuni dei campi di azione dell’intervento sindacale, interessi collettivi che ciascun sindacato che si definisca tale deve essere in grado di intercettare, rappresentare e tutelare oggi.
Sul piano politico/pragmatico, qualora si riuscisse a mettere insieme, a far coalizzare tutte le forze e tutte le energie per contrastare sia a livello nazionale che a livello europeo il piano di svendita della forza lavoro, della sua dignità e della precarietà, disporremmo – in sostanza ne torneremmo in possesso, ci riapproprieremmo – di uno strumento con poteri e funzioni indispensabili per il miglioramento delle condizioni del lavoro e delle vite dei singoli organizzati in collettività. Non che questa possa individuarsi come una mera operazione aritmetica: ciò implica, infatti, un’organizzazione cosciente e capace di coagulare le forze verso un obiettivo comune ed una serie di interventi legislativi, che per altro verso interrogano le forze attive e giuste sull’intero territorio europeo rispetto alla rappresentanza politica.
Cookie | Durata | Descrizione |
---|---|---|
cookielawinfo-checkbox-analytics | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Analytics". |
cookielawinfo-checkbox-functional | 11 months | The cookie is set by GDPR cookie consent to record the user consent for the cookies in the category "Functional". |
cookielawinfo-checkbox-necessary | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookies is used to store the user consent for the cookies in the category "Necessary". |
cookielawinfo-checkbox-others | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Other. |
cookielawinfo-checkbox-performance | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Performance". |
viewed_cookie_policy | 11 months | The cookie is set by the GDPR Cookie Consent plugin and is used to store whether or not user has consented to the use of cookies. It does not store any personal data. |