Direttive europee, convenzioni ONU e norme nazionali prevedono numerosi interventi al fine di garantire l’effettività dei diritti dei più fragili, con conseguente miglioramento delle loro condizioni di lavoro ed esistenziali. Mantenendo il bilanciamento con le esigenze produttive aziendali’.
I disabili possono migliorare la propria condizione esistenziale attraverso il miglioramento delle condizioni di lavoro?
Notevoli spazi di manovra e di azione esistono per dare una risposta affermativa all’interrogativo nell’interesse della parte più debole di tutte nel rapporto di lavoro.
Il comma 3 bis (introdotto dalla L. 99 del 2013), inserito nell’art 3 del D. Lgs. 216/2003 (che recepisce la Direttiva 2000/78), attraverso la previsione dei “ragionevoli accomodamenti”, consente di realizzare un bilanciamento tra la condizione lavorativa del disabile e le esigenze produttive aziendali.
L’art 3 comma 3 bis del D. Lgs. 216/2003, infatti prevede testualmente: Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.
È interessante osservare la tecnica legislativa seguita, consistente nell’inserire la norma all’interno del decreto legislativo n. 216/2003, recante «Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», sotto forma dell’aggiunta del nuovo comma 3-bis dell’art. 3 che richiama la Convenzione delle Nazioni Unite, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18 che ha ad oggetto la non discriminazione soggettiva e dunque anche quella basata sulla disabilità.
Vediamo di portare all’attenzione del lettore l’analisi parallela delle norme relative al divieto di discriminazione, contenute nella Direttiva 2000/78 e nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18; norme che devono orientare i lavoratori nella possibilità di avanzare richieste, ma soprattutto il Giudice, ove sia chiamato a dover dare risposte con provvedimenti intesi a realizzare il ragionevole accomodamento.
L’articolo 2 della direttiva, recepito evidentemente dall’art. 2 del D.Lgs. 216/2003 definisce:
– la nozione di discriminazione diretta che si verifica quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
– la nozione di discriminazione indiretta, ovvero quella che si verifica quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
Anche l’art 2 della stessa Convenzione, oggetto del richiamo diretto della norma nazionale, come novellata, per “discriminazione fondata sulla disabilità” intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole. Nello stesso articolo troviamo poi la definizione di “accomodamento ragionevole” da intendersi nelle modifiche e negli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo ove ve ne sia la necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio su base eguaglianza con gli altri di tutti i diritti umani e libertà fondamentali.
Analogo tenore nella definizione dei ragionevoli accomodamenti ci arriva dall’art. 5 della direttiva, che testualmente prevede “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
Ancora che nel “considerando” n. 20 della direttiva, è previsto: È opportuno prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento. Al n.21, viene aggiunto: Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni.
Le indicazioni, comunque derivabili dalla direttiva (recepita appunto dal D. Lgs.216/2003) e dalla stessa convenzione delle Nazioni Unite, prevedono molteplici interventi di natura sia materiale che strutturale, per garantire l’effettività dei diritti dei più fragili: tali possono essere considerate le modifiche ergonomiche della postazione di lavoro, ovvero la ristrutturazione degli ambienti di lavoro per rendere effettivo il diritto del lavoratore; vi è poi la previsione del trasferimento e del distacco del lavoratore; la riarticolazione dell’orario con l’esclusione dai turni ovvero il ricorso al “lavoro agile”, con la virtualizzazione della sede e/o dell’orario di lavoro, etc..
Dunque alla luce dei richiami citati, la previsione normativa dei ragionevoli accomodamenti si può definire come norma a carattere aperto, che può essere dunque invocata e riempita di contenuti in ragione ed a protezione delle diverse fasi del rapporto lavorativo (dall’accesso al lavoro, allo svolgimento dello stesso, fino alla conservazione del posto), sulla base delle condizioni personali del lavoratore.
Gli accomodamenti ragionevoli possono divenire, dunque, il fulcro su cui poggiare un’eventuale richiesta migliorativa delle condizioni di lavoro della persona in condizione di minorazione; essi si traducono in soluzioni pratiche e positive realizzabili dal datore di lavoro (a meno che la loro implementazione non comporti un onere finanziario sproporzionato) e che rendano il più possibile agevole l’esecuzione della prestazione di lavoro dal disabile. Infatti la mancata concessione dei ragionevoli accomodamenti cui i datori di lavoro “sono tenuti” ridonda, dunque, in un atto di discriminazione indiretta ove non concessa; essi incontrano l’unico limite della sproporzione degli oneri economici e finanziari per l’imprenditore che deve implementarli.
La giurisprudenza si è più che altro pronunciata riguardo a casi e situazioni che riguardano il mantenimento del posto di lavoro nel caso di licenziamento del lavoratore divenuto inabile alla mansione, purtuttavia dando indicazioni come obiter dicta sul delicato compito al quale è chiamato l’interprete nella valutazione dei ragionevoli accomodamenti, con riguardo alla sproporzione degli oneri economico-finanziari per realizzarli nonché sugli oneri probatori processuali.
Da ultimo con sentenza 6497/2021, la Suprema Corte (in linea con i precedenti di legittimità formatosi in materia: Cass. 14132/2019, Cass. 679/2018, Cass. 27243/2018) ha attribuito, in concreto, grande importanza alle indagini che il giudice di merito deve effettuare in relazione alle misure di accomodamento, proprio perché le disposizioni in esame impongono di incidere sulla vita dell’azienda, nel raggiungimento del delicato punto di equilibrio richiesto dalla corretta applicazione della norma come interpretata dalla giurisprudenza della Suprema Corte, tra il diritto del disabile a non essere discriminato e quello dell’imprenditore ad organizzare l’azienda secondo le proprie insindacabili scelte e quelli degli altri lavoratori.
Occorre riflettere sul limite rappresentato dalla “sproporzione” del costo che si affianca a quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”.
Secondo la citata Cassazione n. 6497/2021, il termine “ragionevole” costituisce un “limite ulteriore perché dotato di autonoma valenza letterale, atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal porre in essere l’adattamento fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”. Ritiene la Corte che, se può sostenersi che ogni costo sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo” rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda l’accomodamento di per sé irragionevole, non è necessariamente vero il contrario, perché non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti”.
La Corte rileva altresì come il criterio della ragionevolezza penetri anche i rapporti contrattuali, in quanto, esplicando “la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” (Cass. SU. n. 28056/2008), rappresenta una forma di osservanza del “canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.” (Cass. SU. n. 5457/2009) ed è “immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost.” (v. Cass. SU. n. 15764/2011; Cass. S.U. n. 23726/2007; Cass. S.U. n. 18128/2005; Cass. S.U. n. 4570/1996; Cass. n. 8494/2020; Cass. nn. 14322/2016 e 11429/2006).
Ciò anche se, in mancanza di una disposizione esplicita nel senso che la condotta datoriale debba essere improntata al canone della ragionevolezza, non sembra configurabile nei rapporti di lavoro un obbligo giuridico a valenza generale di “ragionevolezza” nell’esercizio dell’attività di impresa, idoneo a consentire un sindacato giudiziale diretto ed ex post di congruità causale degli atti del datore di lavoro. In altri termini, “stante la natura indeterminata della clausola di “ragionevolezza”, non possono essere dettate, in astratto, prescrizioni cogenti che prescindano dalle circostanze del caso concreto”, ovverossia di accomodamento nella concretezza del caso singolo.
La richiesta del lavoratore, dunque, ove non accordata dal datore di lavoro, può essere rivolta all’autorità giudiziaria nella forma del rito sommario di cognizione. La norma prevede che sia il datore di lavoro onerato della dimostrazione della “eccessiva sproporzione” della misura richiesta e dell’impatto irragionevole dal punto di vista economico finanziario, con riguardo alle dimensioni dell’impresa, al fatto che acceda o meno ad incentivi e che l’accomodamento richiesto non impatti in modo notevole sulle posizioni degli altri dipendenti.
In specifiche pronunce – cfr. Tribunale di Avellino, ordinanza del 16.06.2019; Tribunale di Bari l’ordinanza n. cron. 53589 dell’1.12.2016; Trib civile di Roma Sez. Lav. n. 2399/2021; Corte di appello di Napoli Corte, Sentenza n. 598/2021 pubbl. 19/02/2021 – i giudici richiamando le norme nazionali in raccordo con quelle sovranazionali, risolvono le questioni poste analizzando i fatti nella loro specificità e valutando nel caso concreto il contegno del datore di lavoro secondo i criteri della buona fede e correttezza contrattuale.
Alla luce dei richiamati pronunciamenti di legittimità e di merito, l’accomodamento ragionevole può consistere davvero in ogni tipo di soluzione da prospettare al datore di lavoro e da cercare in accordo con esso.
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