L’ordinamento italiano tutela in maniera molto pregnante il diritto alla reputazione, che viene garantito come diritto della persona di rango Costituzionale, al pari di altri diritti come il diritto all’immagine, al nome, alla riservatezza, ecc., e la tutela di tale diritto avviene sia in ambito penale che in ambito civile.
Questo tipo di fondamento giuridico, atto a proteggere e tutelare l’immagine, affonda le sue origini nella Costituzione italiana, che rispettivamente agli artt. 2 e 3 testualmente recita:
Art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
L’onore, il decoro e la reputazione sono beni giuridici tutelati dall’ordinamento e riconosciuti quali diritti della persona e, pertanto, assoluti, indisponibili e imprescrittibili.
Diretta conseguenza di quanto espresso è che ogni azione a tutela del “decoro” può essere promossa solo dalla persona che ritiene di aver subito una lesione.
Il decoro e/o reputazione in ambito lavorativo si potrebbe definire come l’immagine che un soggetto ha costruito di sé nel proprio ambiente lavorativo.
Il danno all’immagine professionale è il danno che va ad intaccare la considerazione di cui un soggetto gode tra le persone con le quali interagisce nella propria sfera lavorativo-professionale, dove rimane circoscritto il discredito e talvolta il disprezzo cagionato in modo illecito.
L’offesa arrecata alla nostra reputazione professionale sul posto di lavoro ha generalmente per conseguenza una diminuzione della considerazione da parte degli altri addetti e delle persone che per motivi di lavoro interagiscono con noi.
In ambito lavorativo, tali valori vengono tutelati attraverso l’art. 2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro un obbligo generale di sicurezza nei confronti dei propri collaboratori: obbligo di sicurezza che ricomprende il dovere di rispettare tutte le specifiche norme dettate a tutela del lavoratore in quanto persona, sia che riguardino la sua integrità psico-fisica, sia la sua personalità morale.
Tipologie di danni in violazione della tutela del lavoratore
Si fanno oggi rientrare nella previsione dell’art. 2087 c.c., fra gli altri, i seguenti danni da violazione della tutela del lavoratore:
• i danni conseguenti al declassamento del lavoratore o alla privazione totale delle mansioni,
• i danni cagionati alla sfera della riservatezza,
• quelli conseguenti a molestie sessuali,
• quelli conseguenti alla persecuzione del datore di lavoro (c.d. mobbing)
• e, per l’appunto, quelli derivanti dalla violazione dell’immagine privata e professionale, della dignità e della personalità.
Le responsabilità previste dal Codice Civile
Dalla violazione dell’obbligo di sicurezza derivano importanti responsabilità per l’autore dell’illecito, in particolare:
Responsabilità civilistico-contrattuale. In primo luogo una responsabilità di tipo civilistico-contrattuale. Nel termine di dieci anni dalla suddetta violazione, il lavoratore può adire l’Autorità Giudiziaria, sia per impedire il reiterarsi di tali condotte, sia per chiedere il risarcimento dei danni patiti, dovendo solo dimostrare l’esistenza dei suddetti danni e la loro riconducibilità ad una condotta illecita del datore di lavoro.
Il danno di cui si può chiedere il risarcimento è:
• sia quello patrimoniale, laddove la condotta illecita abbia cagionato una perdita monetaria e/o un mancato guadagno;
• sia quello non patrimoniale (danno biologico, danno morale, danno esistenziale).
Responsabilità penale
L’illecito perpetrato a danno del lavoratore può avere, comunque, non solo delle conseguenze sul piano civilistico (inibizione delle condotte, risarcimento del danno), ma può portare pure a responsabilità penali dell’autore di tale illecito, talune perseguibili a querela di parte, altre, per la loro gravità, perseguibili d’ufficio. Sul piano civilistico, capita sovente che il lavoratore chiami in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti ad atti che, perpetrati nel tempo, abbiano lo scopo di ledere la dignità della persona, di isolarla dal contesto lavorativo, o anche di costringerla a rassegnare le dimissioni, in presenza di un contesto lavorativo sfavorevole. Ma se anche in tali comportamenti non fosse rinvenuto il carattere della sistematicità, della durata e della reiterazione comprovanti l’esistenza di una condotta ostile e vessatoria nei confronti del lavoratore (c.d. mobbing), l’oggettiva gravità e la rilevanza penale degli episodi, laddove configuranti il reato di diffamazione o di ingiuria, legittimerebbero una domanda giudiziale volta ad ottenere il danno non patrimoniale (biologico e morale) che da tale violazione della tutela del lavoratore è conseguito.
Il danneggiato può richiedere il risarcimento del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale.
Se il Giudice accerta la lesione al diritto alla reputazione professionale, il soggetto che l’ha subita potrà ottenere un risarcimento del danno, sia patrimoniale, che non patrimoniale, quest’ultimo inteso non solo come danno morale, ma in senso più ampio come danno all’immagine, alla reputazione.
L’accertamento della lesione non comporta in automatico la risarcibilità del danno: spetta al danneggiato provare che la lesione della reputazione gli abbia cagionato una perdita patrimoniale o un danno non patrimoniale.
Da ultimo, occorre precisare che chi ha subito una lesione della propria reputazione – nella sfera personale o in ambito lavorativo – può richiede il risarcimento dei danni, a prescindere dal fatto che venga accertata una fattispecie di reato.
Ciò in quanto la violazione del decoro e della dignità personale o commerciale costituisce una lesione di un valore protetto dalla Costituzione.
Cronologia degli orientamenti della giurisprudenza sulla risarcibilita del danno da lesione alla reputazione.
In merito al danno da lesione alla reputazione si è ingenerato un dibattito in giurisprudenza con riguardo, in particolare, alla natura giuridica di tale danno e alla conseguente ripartizione dell’onere della prova.
In un primo momento, infatti, la Cassazione aveva qualificato il danno alla reputazione come danno-evento, ovverosia come lesione diretta di un interesse giuridicamente (e costituzionalmente) rilevante dell’individuo: ne discendeva, di conseguenza, la non necessità di una prova specifica delle conseguenze che il danno avesse prodotto nella sfera giuridica del danneggiato, bastando la prova della condotta potenzialmente lesiva della reputazione del soggetto, la quale veniva considerata in astratto (cfr. Cassazione n. 16543 del 28.09.2012; cosiddetto danno da lesione alla reputazione in re ipsa).
Successivamente, tuttavia, si iniziò ad avvertire un’esigenza di superamento del concetto di “danno-evento”, il quale deve essere inteso come elemento costitutivo dell’illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., sub specie di danno ingiusto, rilevando, percio, sotto il profilo del diritto al risarcimento del danno; tuttavia, ai fini della valutazione del quantum del risarcimento spettante al danneggiato, si dovra guardare al cosiddetto danno-conseguenza, consistente nel complesso delle conseguenze pregiudizievoli cagionate nella sfera giuridica dell’individuo, tanto patrimoniale quanto non patrimoniale, a causa dell’illecito subito. In quest’ottica, pertanto, si è accolta una nozione di danno da lesione alla reputazione non più come danno-evento (sussistente percio in re ipsa) ma come danno-conseguenza. Rilevanti le ricadute in punto di onere probatorio: mentre, come si è detto, affermando la natura di danno-evento del danno alla reputazione, il danneggiato avrebbe avuto solo l’onere di provare il fatto causativo del danno ingiusto alla sua “immagine sociale”, sostenendo, invece, la sua natura di danno-conseguenza, viene addossato sul danneggiato un onere probatorio decisamente piu rigoroso, dovendosi provare non soltanto il fatto illecito, ma anche le conseguenze pregiudizievoli che lo stesso abbia prodotto alla reputazione dello stesso. Si pensi, ad esempio, alla perdita di un’occasione lavorativa, dipendente dalla cattiva reputazione di “fannullone”, acquisita a causa di altrui diffamazione.
Tale è stato, peraltro, l’orientamento espresso dalla Cassazione, da ultimo, con ordinanza n. 9385 del 16.04.2018, nella quale si è inteso ribadire nuovamente la qualifica del danno da lesione alla reputazione come danno-conseguenza, rifuggendo dagli orientamenti che lo qualificavano come danno in re ipsa.
La ratio che ha spinto la giurisprudenza di legittimita a superare la tesi del danno non patrimoniale da lesione di interessi costituzionalmente rilevanti come danno-evento in re ipsa puo rinvenirsi nell’intrinseca natura del diritto al risarcimento del danno nel nostro ordinamento: deve trattarsi di un risarcimento volto a ristorare il danneggiato delle conseguenze dannose prodottesi nel suo patrimonio a causa del fatto lesivo, non dovendosi, invece, tradurre in un onere patrimoniale posto a carico del responsabile per il solo fatto illecito commesso, poiche altrimenti si rientrerebbe nella controversa categoria dei punitive damages. Pertanto, il danno da lesione alla reputazione puo essere risarcito, in base al combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 2 e 3 Cost., ma il danneggiato deve offrire una prova concreta, sia pur basata su presunzioni e valutazioni prognostiche, delle effettive conseguenze dannose che il fatto illecito abbia cagionato nella sua sfera giuridica.
Il danno all’immagine ed alla reputazione non sussiste “in re ipsa”
• Cass. n. 28457/2008: Il danno alla professionalità e alla relativa immagine del dipendente può essere riconosciuto solo in presenza di adeguate allegazioni in ordine al pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul “fare areddituale” del lavoratore (alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per esprimere e realizzare nel mondo esterno la sua personalità, considerato che il danno esistenziale si fonda sulla natura, non meramente emotiva ed interiore, propria del danno morale, ma oggettivamente accettabile del pregiudizio), ancorché, ai fini della dimostrazione del danno, assume precipuo rilievo la prova per presunzioni, sulla base di complessiva valutazione di precisi elementi ritualmente dedotti in causa.
• Cass. n. 20558/2014: “Il danno alla reputazione e all’immagine è un danno-conseguenza che richiede, pertanto, specifica prova da parte di chi ne chiede il risarcimento.
• Cassazione civile sez. lav., 08/02/2021, n.2968: Il danno all’immagine ed alla reputazione, inteso come “danno conseguenza”, non sussiste in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Pertanto, la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, sulla base non di valutazioni astratte, bensì del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e dimostrato, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, che siano fondate, però, su elementi indiziari diversi dal fatto in sé.
Sui criteri di liquidazione del danno non patrimoniale
Per la liquidazione del danno non patrimoniale subito in fattispecie peculiari, nelle ipotesi di altri reati oppure in conseguenza della lesione di altri diritti, non vi sono tabelle di liquidazione generalmente seguite dai giudici di merito e/o validate dalla Corte di Cassazione.
In questi casi la liquidazione del danno non patrimoniale dovrà essere necessariamente effettuata con il criterio dell’equità pura (ex art. 1226 c.c.). È pacifico in giurisprudenza che, laddove sia provato il danno, ma l›accertamento del suo ammontare e dunque la sua liquidazione presentino gravi difficoltà, il giudice possa procedere secondo equità, esercitando il suo prudente apprezzamento discrezionale. Nell’esercizio di tale potere la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, ma solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge o essa macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria. Sulla questione può dirsi consolidato quell’orientamento che, tenendo conto di una certa difficoltà di dimostrazione dell’entità del danno non patrimoniale, consente – nel rispetto degli oneri di allegazione e prova – la liquidazione di esso in via equitativa, con un apprezzamento non sindacabile dal Giudice di legittimità, purché ancorato ad un excursus logico esauriente ed intelligibile. Tale parametro di equità giudiziale integrativa deve, ovviamente, ancorarsi a criteri di congruità logica, anche allorché si serva di quei criteri orientativi che si sostanziano nelle tabelle di liquidazione elaborate dagli uffici giudiziari e che sono dirette ad assicurare una certa omogeneità di trattamento nell’ambito di situazioni analoghe.
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