H. Arendt, Lavoro, Opera, Azione, 1964
L’impulso di analizzare il rapporto tra formazione e lavoro mi è arrivato da alcuni eventi tragici che hanno funestato quest’ultimo anno (e non solo). Le morti e gli incidenti tra giovanissimi/e durante percorsi di formazione lavoro e/o professionalizzanti come PCTO (ex alternanza scuola lavoro), stage, tirocini o apprendistati, dovrebbero spingerci a riflettere su qual è il limite tra la formazione e il lavoro; dovremmo provare ad individuare la logica cannibalizzante con cui le ragioni del mercato del lavoro divorano le ragioni della formazione, di fatto asservita alla “produttività” e alla performance al fine di incrementare quel “capitale umano” necessario per essere competitivi in un mercato del lavoro sempre più esigente e vorace.
Con la crisi del diritto del lavoro e sindacale, del fordismo, della destrutturazione dei sistemi di produzione, il lavoratore (o lo studente precario in formazione) tende ad interiorizzare lo spirito d’impresa (il farsi-impresa, inventare il lavoro), assumere la prospettiva competitiva, assecondare le richieste del mercato, i modelli di organizzazione flessibile del lavoro. L’enfasi sulle competenze trasversali, motivazionali e relazionali, fondate sulla duttilità e sulla disposizione di quei caratteri cognitivi, emotivi, linguistici e relazionali del lavoro utili al mercato, va collocata nell’alveo dei modelli interpretativi delle scienze del management, che concepiscono il soggetto esclusivamente come risorsa produttiva. Una risorsa umana che, costantemente sottoposta a monitoraggio, valutazione e profiling, ha necessità di essere riconosciuta, orientata, valorizzata, ma anche mobilitata e dinamizzata.
Al momento, gli unici che sembrano aver compreso appieno i rischi che si celano dietro questo rapporto perverso tra lavoro e formazione – in particolare in relazione all’esperienze di PCTO e tirocini professionalizzanti – sono le studentesse e gli studenti, che si mobilitano anche a fronte di una durissima quanto insensata repressione da parte degli apparati di polizia e giudiziari.
Torno sulle parole Capitale e Umano, che lette insieme ci conducono a un evidente ossimoro: da un lato vi è una dimensione oggettiva, reificante e alienante (il capitale), dall’altro la dimensione soggettiva e vitale, fatta di carne, aspirazioni, idee e desideri (l’umano).
Il cuore del problema sta tutto qui, nel voler tenere insieme queste due parole, seppur in contrasto. Quindi, a cosa dare più peso in questo rapporto “complicato”? Al capitale o all’umano?
Dalla risposta che ci si dà, non può che derivare una riflessione sulla conferma o messa in discussione dei dispositivi normativi che concretizzano il rapporto tra formazione e lavoro.
Una riflessione del genere riguarda in primo luogo noi operatori di diritto e per ambito di appartenenza noi giuslavoristi, date le varie forme contrattuali che puntano sull’accrescimento di competenze, “skills”, funzionali all’esecuzione della prestazione lavorativa, che nell’esercizio della nostra professione (in particolare nell’attività giudiziale) incrociamo quotidianamente.
Questo articolo non vuol essere una disamina delle singole forme contrattuali (si pensi ai contratti a causa mista come i contratti di apprendistato) o dei percorsi professionalizzanti (stage, tirocini, percorsi per le competenze trasversali e orientamento cosiddetto PCTO), ma vuole far emergere i meccanismi che hanno fatto di una giusta esigenza come la formazione delle classi lavoratrici una sorta di pretesto, in grado di realizzare forme di sfruttamento agite su vari livelli: dalla scuola sino a quello che accade propriamente nei luoghi di lavoro.
Il dibattito nell’assemblea Costituente
Come noto, analizzando alcuni articoli della nostra Costituzione (si pensi agli artt. 1, 4, 35, 41) emerge inequivocabilmente che il lavoro è elemento qualificante della cittadinanza. Infatti dal dibattito in seno all’assemblea costituente emerse chiaramente che il lavoro costituisce la forma primaria – se non l’unica, almeno per l’epoca – di “cittadinanza sociale”: in virtù del fatto che il lavoro – inteso quale fondamento della Repubblica – non viene visto come semplice strumento di guadagno, bensì come “mezzo necessario per l’affermazione della persona”.
Perciò, essendo il lavoro elemento determinante per accedere alla cittadinanza (sulla base dell’orientamento cristiano – socialista in seno alla costituente) e posto che le forze produttrici del Paese (ossia la classe lavoratrice) avrebbero avuto una funzione fondamentale nello sviluppo dell’architettura dello Stato, i lavoratori e le lavoratrici avrebbero dovuto godere di una formazione elevata, al fine di assolvere ai propri compiti sociali e politici.
Sulla base di tale ragionamento è stato poi redatto l’art. 35 della Costituzione, come un principio posto a tutela generale delle forme di lavoro per altri (dunque subordinate).
Segnatamente, l’art. 35 stabilisce al comma 1: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, mentre al comma 2 si legge “Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”.
In questa sede, proprio sul comma 2 si vuole porre l’accento. Ebbene, il secondo comma si deve alla proposta dell’on. Moro il quale (A.C., pag. 3975) nel sostenerla affermò di aver “preferito la parola formazione all’altra istruzione perché quest’ultima ha carattere ristretto, mentre qui si vuol mettere in rilievo che la Repubblica assume il compito non solo di istruire in senso tecnico, ma anche di formare la mentalità e la tecnica per il lavoro professionale… Si aggiunge l’elevazione professionale come indicazione sintetica di un complesso di provvedimenti tendenti ad ottenere un livello più alto di vita professionale, culturale e tecnica dei lavoratori”.
Da ciò si evince chiaramente l’intenzione dei padri costituenti, ed infatti genesi e collocazione della norma riassumono plasticamente l’aspetto centrale che la formazione professionale pone: l’ambivalenza di essa, ovvero l’appartenere al mondo dell’istruzione da un lato e l’essere funzionalizzata allo svolgimento dell’attività lavorativa dall’altro. Quindi emergono i necessari collegamenti tra l’istruzione e la realtà lavorativa: sia mediante la predisposizione di percorsi scolastici mirati all’inserimento professionale (le cosiddette scuole professionali); sia attraverso l’opportuno sviluppo di forme contrattuali a ciò deputate: in primo luogo l’apprendistato, ma rientrano in questo concetto anche tutte quelle iniziative indipendenti da correlazioni con i percorsi d’istruzione, ma ugualmente finalizzate a creare una certa “professionalità” nei fruitori delle iniziative stesse.
La formazione diventa funzionale alla realizzazione di quella parità tra le (diverse) condizioni di partenza e necessaria ai fini dell’ottenimento di un lavoro: passaggio, questo – come si è visto – a sua volta indispensabile, in vista della realizzazione e della compiuta esplicazione di quel vincolo di “cittadinanza sociale” di cui l’individuo è titolare. Semplificando, dunque, e dando per scontato il collegamento esistente tra gli artt. 1, 2, 3 cpv. e 4, 1° comma, si può tranquillamente affermare che la formazione è il principale strumento di cui lo Stato deve disporre per assicurare l’effettività del diritto al lavoro.
Letto in quest’ottica, il diritto a che la Repubblica curi l’elevazione professionale dei lavoratori si riempie di carica sociale, lanciando addirittura una “sfida”, consistente nel non fermarsi alla garanzia dell’eguaglianza dei punti di partenza, bensì nel puntare “ad una piena realizzazione della persona del lavoratore”, nonché nella “capacità di crescita delle classi subalterne”.
L’inversione ideologica in campo europeo
Quindi è palese da tali rilievi che, secondo i costituenti, il rapporto tra formazione in senso lato e lavoro andava inteso come rapporto funzionale allo sviluppo delle forze produttive in quanto cittadini, cui spetta il compito di sorreggere e sviluppare progressivamente la Repubblica. Perciò, seppure è innegabile il rapporto tra formazione e ottenimento di un lavoro, la trasmissione di tale sapere non andrebbe però intesa come funzionale allo sviluppo dei processi produttivi in capo ai singoli imprenditori.
Tuttavia ciò è accaduto: con l’instaurazione dello spazio comunitario ed europeo, infatti, il legame tra lavoro e formazione è diventato sempre più stretto, puntando alla sola valorizzazione del “capitale umano” da intendersi come pacchetto di competenze e saperi dei singoli e delle singole immediatamente spendibile nel mercato del lavoro. Elemento centrale della strategia europea era l’investimento su un’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.
Sul punto, rilievo fondamentale assume il Trattato di Maastricht, adottato nel 1992, mediante il quale lo sviluppo della dimensione sociale diviene uno degli obiettivi principali di quella che, nel frattempo, è diventata l’Unione Europea. Viene quindi introdotto un nuovo capo, dedicato a «Istruzione, formazione professionale e gioventù» (che tuttora integra il TFUE) e si dà ulteriore slancio all’azione comunitaria, prevedendo la partecipazione delle parti sociali al processo di costruzione della politica sociale dell’Unione.
Dopo vari rilanci programmatici e normativi sul tema, a partire dal Trattato di Amsterdam, tali impulsi si sono infine cristallizzati prima nella “Strategia europea sulla occupazione” (SEO) e poi nel progetto “Europa 20-20”.
La SEO impegna UE e Paesi membri a definire e raggiungere quattro obiettivi dai nomi carichi di enfasi e buoni propositi:
Le ricadute all’interno dei singoli rapporti di lavoro
Ovviamente tali sollecitazioni hanno sortito effetti all’interno del nostro ordinamento. Se da un lato i vari interventi del legislatore hanno innovato alcune forme contrattuali al fine di promuoverne l’adozione, anche in ottica di realizzazione di politiche di occupabilità – come ad esempio il contratto di apprendistato e l’utilizzo di stage e tirocini professionalizzanti – dall’altro si sono susseguiti provvedimenti finalizzati a introdurre percorsi di formazione e lavoro, come ad esempio l’alternanza scuola-lavoro nel 2005 e dal 2018 i percorsi per il conseguimento di competenze trasversali e per lo sviluppo della capacità di orientarsi (PCTO). La cifra comune di provvedimenti normativi di per sé molto diversi è però la dimensione di sfruttamento, mascherata da formazione.
Alcuni esempi:
• interessante è l’utilizzo di stage e tirocini in ambito scolastico e accademico, divenuti parte integrante del percorso formativo tanto nelle scuole quanto nelle università, nelle lauree triennali e in quelle magistrali, nelle facoltà umanistiche e in quelle scientifiche. Dal punto di vista di chi chiede lavoro, tirocini e stage sono lavoro gratuito che viene immesso nel sistema produttivo, modificando i rapporti di forza nei luoghi di lavoro, creando divisioni tra i lavoratori e rendendo più ricattabili coloro che sono assunti. Spesso gli stagisti svolgono infatti il lavoro che prima svolgeva chi aveva un contratto e costituiscono un bacino di lavoro sempre disponibile con cui sostituire sia i vecchi stagisti sia gli assunti. Se si considera il regime del salario di cui sono parte, stage e tirocini formano quell’unica strada che sempre più spesso viene lasciata aperta per conquistarsi una retribuzione, se non presente, ipoteticamente futura. Nel discorso dominante essi rappresentano quello sforzo necessario che bisogna fare per accaparrarsi, in regime di scarsità, i pochi posti di lavoro disponibili. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha sempre fatto emergere l’uso distorto che viene fatto di tali forme contrattuali, sottolineando il ruolo preminente della componente formativa all’interno di questi tipi di contratto, essendo tale attività a distinguere il contratto di apprendistato da un contratto di lavoro subordinato. In merito, già in passato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6787/2002, ove è specificato che l’elemento essenziale dello stage è dato dall’obbligo del datore di lavoro (ossia il soggetto ospitante) di garantire un effettivo addestramento professionale finalizzato all’acquisizione, da parte del tirocinante, di una qualificazione professionale. Determinante, in tal senso, è la circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro del 18 aprile 2018, secondo cui l’attività del tirocinante, affinché si possa parlare effettivamente di tirocinio, “deve essere effettivamente funzionale all’apprendimento e non piuttosto all’esercizio di una mera prestazione lavorativa”. Quindi, ove si riscontri la violazione delle disposizioni regionali che regolano l’istituto o in mancanza dei requisiti propri del tirocinio (quale, evidentemente, l’attività formativa) il rapporto potrà essere ricondotto “alla forma comune di rapporto di lavoro, ossia il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, così come previsto dall’articolo 1 del D.Lgs. n. 81/2015”.
• Dal Testo Unico del 2011, la regolamentazione del contratto d’apprendistato si rivela un buon punto da cui guardare alla nuova configurazione del legame tra formazione e lavoro in un regime di precarietà generalizzata. L’apprendistato ha sempre offerto la possibilità di assumere giovani a un salario più basso di quello contrattuale, conveniente nonostante gli obblighi formativi, anche per gli incentivi fiscali e contributivi che lo hanno caratterizzato fin dall’inizio. Inoltre tale contratto, pur essendo un contratto subordinato a tempo indeterminato, consente al datore di lavoro la possibilità di licenziare senza alcuna motivazione l’apprendista nel periodo che si presume di formazione. È interessante notare come, in fase di discussione parlamentare, all’interno dell’art. 42 del dlgs 81 del 2015, la prima proposta di legge del governo Renzi prevedeva l’eliminazione della formazione pubblica: questa viene reintrodotta dalla Commissione Lavoro che, però, sostituisce all’obbligo di stendere un dettagliato piano formativo individuale all’avvio dell’apprendistato una sua stesura “sintetica”, nell’ottica della semplificazione e della flessibilità. Com’è possibile, infatti, a fronte di un sistema produttivo che cambia così freneticamente, prevedere un piano formativo dettagliato per un intero triennio? Il piano formativo deve essere modificabile a seconda di queste trasformazioni e affidato all’arbitrio del datore di lavoro, che interpretando a suo piacimento la sinteticità, può così aggirare qualsiasi ispezione. Ci si chiederà quale professionalità dovrebbe essere prodotta, se non si riesce a stabilire preliminarmente in forma scritta quale sia la formazione necessaria, dato che le modalità della formazione sono piegate alle esigenze congiunturali. Si tratterà di un insieme di competenze adatte alla contingenza dei bisogni aziendali, presentato come formazione necessaria, ma poi da squalificare alla fine del periodo di apprendistato o in corso d’opera, perché inutile per l’azienda e per le esigenze produttive del momento. Ed infatti, spesso, nella pratica, ciò si concretizza nel tentativo elusivo da parte del datore di lavoro di adempiere a qualsiasi compito formativo, addestrando il lavoratore a svolgere immediatamente la propria prestazione di lavoro. In relazione al contratto di apprendistato, la Suprema Corte ha affermato che il ruolo preminente che la formazione assume rispetto all’attività lavorativa esclude che possa ritenersi conforme a tale speciale figura contrattuale un rapporto avente ad oggetto lo svolgimento di attività assolutamente elementari o routinarie, non integrate da un effettivo apporto didattico e formativo di natura teorica e pratica. Pertanto il contratto di apprendistato, che è contratto a causa mista con finalità formative, non può essere stipulato al solo scopo di far svolgere durante la durata del contratto le mansioni tipiche del profilo professionale, dovendo prevedere al contempo un’attività d’insegnamento da parte del datore di lavoro, la quale costituisce elemento essenziale e indefettibile del contratto, entrando a far parte della causa negoziale (da ultimo: Consiglio di Stato, n.7865/2021; Cass. N.16571/2018; Cass. N. 8564 del 2018; Cass. N. 3344/2015 e Cass. N. 1324/2015). Si può concludere che il tentativo di incentivare l’apprendistato come forma normalizzata di passaggio dal non-lavoro al lavoro lascia intravedere la direzione della semplificazione: un’unica forma contrattuale che regoli la formazione in quanto disponibilità alle esigenze del mercato del lavoro. Solo unilateralmente formazione e lavoro starebbero in una pacifica armonia. Per chi viene formato lo scollamento tra formazione e lavoro è evidente, nella misura in cui un apprendistato equivale a un periodo di lavoro con un salario basso che non garantisce alcuno stabile inserimento in un mercato del lavoro, da cui si viene espulsi in continuazione. Nell’impossibilità di appropriarsi dei prodotti della propria formazione, essa si rivela funzionale alle esigenze congiunturali ed equivalente all’inserimento perenne nel mercato di una merce povera chiamata lavoro.
Qualche cenno in merito ai “percorsi duali” di formazione – lavoro
Consultando il sito dell’OIL – Organizzazione Internazionale del Lavoro – si può leggere questa frase: “Ogni 15 secondi un lavoratore muore sul lavoro a causa di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale. Ogni 15 secondi, 153 lavoratori hanno un infortunio sul lavoro”.
In Italia, le morti sul lavoro oscillano tra le tre e le quattro al giorno. Il 25 gennaio 2022, durante l’ultimo giorno di tirocinio professionalizzante, moriva lo studente Lorenzo Parelli.
L’alternanza scuola lavoro – poi i PCTO – sono percorsi di orientamento e di formazione – lavoro e, dopo questo tragico evento, tali percorsi sono saliti agli onori della cronaca.
Segnatamente, L’ASL in Italia (definita puntualmente dal D.Lgs. 77/2005, riformata dalla Gelmini nel 2010 e recentemente riarticolata nella L. 107/2015 “Buona scuola”) si snoda attraverso il sistema duale e la metodologia del learning by doing: “un approccio rivolto alle politiche di transizione tra scuola, formazione professionale e lavoro per favorire l’orientamento nel mondo del lavoro e l’acquisizione di competenze spendibili per il mercato, accorciando i tempi di attesa e facilitando il passaggio tra scuola ed esperienze professionali” (www.sistemaduale.gov.it).
La critica mossa in primo luogo da studenti e studentesse, sindacaliste e sindacalisti, nonché da un pezzo dell’opinione pubblica, è che come per i contratti di apprendistato, gli stage e i tirocini, anche tali percorsi sono funzionali esclusivamente allo sfruttamento di giovanissimi attraverso forme di lavoro gratuito.
Come già accaduto ad altre forme contrattuali con scopi “formativi”, infatti, l’utilizzo di tali percorsi si è tradotto in frequenti abusi.
Vari esperti hanno sottolineato come essi siano funzionali a regolamentare l’ingresso nel mercato del lavoro: “secondo la visione dominante, infatti, al sistema di istruzione e formazione viene assegnato il ruolo di attore centrale del mercato del lavoro: e da lì bisogna partire per colmare il mismatch di competenze e skills. ”.
Nel concreto, il ruolo dell’alternanza scuola lavoro (e poi dei PCTO) nella prassi si è spesso dimostrato non solo inconsistente quanto piuttosto controverso, a partire dai seguenti elementi caratterizzanti:
generazione delle «350 euro»
disponibilità al lavoro gratuito
sostituzione di forza lavoro e posizioni professionali
ricattabilità dovuta alle valutazioni
scarsa sicurezza ed infortuni
sottrazione di formazione curricolare (sapere)
mercificazione del sapere: vantaggio per le imprese e per gli enti di formazione
Se ne può quindi desumere che le esperienze di alternanza hanno in realtà la funzione di abilitare e disciplinare alle forme dello sfruttamento, e, con il farsi impresa dei soggetti, a disporre all’auto-ingiunzione produttiva.
Aspettando Godot: (non) conclusioni
In queste poche e incomplete pagine emerge un cambio di paradigma che dovrebbe aiutarci a riflettere anche sui tipi contrattuali e i dispositivi normativi che concretamente regolano il rapporto tra formazione e lavoro.
Analizzando l’art. 35 della Costituzione, in particolare il secondo comma, emerge come il dovere di curare la formazione professionale dei lavoratori sia funzionale al progresso e avanzamento della società, che questi ultimi con la propria opera concorrono a migliorare. È chiaro poi che tale dovere preveda il coinvolgimento delle componenti imprenditoriali del Paese, dato che, secondo il dettato costituzionale, anch’esse agiscono nell’interesse pubblico (come si può desumere anche dal secondo comma dell’art. 41 Cost.).
Successivamente, con la costruzione dello spazio comunitario ed europeo, le ragioni del mercato e dell’occupabilità hanno prevalso rispetto ai principi di solidarietà sociale e tutela collettiva. Pertanto, come già detto, anche la funzione formativa ha subito una torsione tale da venir qualificata come elemento determinante per lo sviluppo dei singoli processi produttivi in capo alle scelte imprenditoriali.
Da questo punto di vista, bisognerebbe serenamente ammettere che il tipo di formazione fornita dal datore di lavoro nei confronti di un giovane tirocinante o apprendista è quella formazione ordinaria e di base di cui chiunque si appresti a un’esperienza lavorativa ha bisogno. Dunque parliamo di una formazione ontologicamente connessa alla esecuzione di una mansione e, in quanto tale, senza alcun carattere di “specialità” rispetto alla prestazione lavorativa.
Inoltre, rimane il problema enorme derivante dalla malsana prassi, da parte delle componenti datoriali, di utilizzare tali forme contrattuali solo ed esclusivamente al fine di scaricare sui lavoratori e sulle lavoratrici i costi del lavoro, speculando letteralmente su vere e proprie forme di lavoro gratuito.
Infine, rimane l’enorme problema derivante dalla promozione di percorsi duali, come l’alternanza scuola -lavoro e i PCTO, veri e propri strumenti legali di reclutamento di manodopera “studentesca”.
Come rappresentato nei paragrafi che precedono, la giurisprudenza ha formato un orientamento granitico volto a sanzionare gli abusi che si celano dietro il pretesto della formazione, accertando la nullità di tali rapporti e trasformandoli in contratti di lavoro subordinato.
Mentre, al momento, per quanto riguarda i percorsi duali, il piano giudiziario è legato più ad aspetti penalistici, in relazione anche alla tutela della salute prevista dal dlgs 81/2008.
Tuttavia, per una decisa inversione di rotta, solo il legislatore può prendere il timone di questa nave che fa acqua da tutte le parti, ovviamente su impulso di alcuni attori politici e sociali come i movimenti studenteschi, sindacali ecc.
Ovviamente tale obiettivo non è facile da realizzarsi e la nuova fase politica non fa ben sperare, tuttavia voglio concludere con una piccola lista di desideri (ad oggi non perseguibili forse, ma non per questo irrealizzabili), in grado di rompere questo rapporto “perverso” tra lavoro/formazione/sfruttamento:
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