Premessa
La questione relativa alla corretta o meno fruizione dei permessi ex art. 33 l. 104/92 tiene banco nelle aule dei Tribunali e in quelle universitarie da oltre un ventennio.
Inoltre, probabilmente per il forte impatto di carattere sociale e in virtù della delicatezza sottesa alla fattispecie, ad oggi risulta ancor più accentuata la dicotomia circa l’uso di tali permessi: più precisamente, se il lavoratore fruisca degli stessi in conformità dei canoni di correttezza e buona fede o se invece la sua condotta vada ad integrare un disvalore sociale meritevole di sanzione.
Ogni qualvolta ci si imbatte nella fattispecie relativa alla fruizione dei permessi per assistenza del disabile, automaticamente si integrano una serie di relazioni che vedono direttamente e indirettamente coinvolti quattro soggetti: il datore di lavoro, il lavoratore che presta assistenza (cosiddetto caregiver), ovviamente il familiare disabile ed infine l’Istituto di previdenza.
All’interno di questo quadrilatero di relazioni, molteplici possono risultare gli scenari ed i risvolti giuridici in caso di condotta fraudolenta del lavoratore. Con una sola azione (rectius, omissione), la condotta del caregiver potrebbe integrare tanto una truffa ai danni dell’INPS quanto una violazione dei canoni di buona fede e correttezza, che porterebbe alla lesione del vincolo fiduciario e, quale extrema ratio, alla presunta giusta causa di recesso. E però, se è vero che la portata dell’eventuale abuso del diritto sotteso risulta essere senza dubbio di forte impatto, è altresì pacifico che il lavoratore – caregiver è stato privato di quasi tutte le tutele legate all’assistenza del disabile nel corso delle giornate di permesso ex l. 104. Questo dal momento che la giurisprudenza ha scientemente imposto un’interpretazione prevenuta o quantomeno restrittiva della disciplina al vaglio, quasi a voler trasmettere il messaggio che nel corso della fruizione dei permessi l’assistente deve del tutto annullarsi in favore del disabile, non essendo ammessa nessuna attività indiretta, compensativa o di ristoro nel corso delle giornate de quibus.
La ratio dei permessi
La volontà del legislatore di istituire il diritto in capo al lavoratore che presta assistenza al disabile di tre giornate di permesso retribuito, dunque, trova la sua genesi non nel dare sostegno al dipendente al fine di godere di tre giorni da destinare al proprio ristoro psico-fisico, bensì nell’assicurare, in capo al familiare disabile, una continuità nelle cure e nella sua assistenza.
Insomma non devono essere viste come ferie, ma come giornate destinate all’assistenza del disabile.
Il concetto di assistenza
Ma in cosa debba consistere l’assistenza del disabile la norma non lo spiega e sull’interpretazione di tale annosa questione è stata numerose volte scomodata la Giurisprudenza, il cui pensiero si è evoluto nel corso degli ultimi (almeno) quindici anni.
Se infatti, ante Collegato Lavoro, l’interpretazione della norma era fortemente rigida, dovendosi intendere integrata correttamente l’assistenza al disabile solo nel caso in cui fossero emersi i requisiti della convivenza, dell’esclusività e della continuità, successivamente all’entrata in vigore della l. 183/2010 si assiste ad un primo tentativo (non soddisfacente, ad avviso di chi scrive), volto a smussare la rigidità dell’applicazione dei permessi. Al fine di garantirne la corretta fruizione, con l’avvento del Collegato Lavoro si è andati a eliminare i requisiti sopra richiamati, per sostituirli con l’introduzione di un nuovo criterio: quello della prevalenza.
Insomma, se prima l’utilizzo corretto dei permessi ex l. 104 si integrava solo laddove il lavoratore avesse dimostrato di essere l’unico a prestare stabilmente assistenza al familiare bisognoso – anche in virtù della condivisione dello stesso tetto familiare – successivamente alla riforma del 2010 non è più necessario dimostrare di convivere con il parente disabile, ma di assisterlo in modo permanente e globale.
Se circa il requisito della permanenza nulla si può aggiungere dal momento che il caregiver ha l’obbligo di assistenza sempre e comunque (e ciò a prescindere dal giorno in cui si fruisce del permesso e al di là di ogni dovere imposto da legge, rientrando l’attività assistenziale nel novero degli obblighi dapprima sociali e poi normativi), qualche breve considerazione si deve porre sull’interpretazione che la giurisprudenza ha offerto in merito al concetto di “globalità” dell’assistenza.
Nel corso di questi ultimi dieci anni, tanto i Tribunali di merito quanto la Corte di legittimità si sono pronunciati confermando la natura abusiva della fruizione dei permessi, non andando a soffermarsi sull’attività effettivamente espletata dal dipendente, ma ponendo il focus sulla percentuale di tempo dedicata dal caregiver al familiare disabile, ovvero se l’attività di assistenza si fosse svolta negli orari in cui il dipendente avrebbe dovuto lavorare (quasi dovendo giustificare la necessità della richiesta della giornata di permesso).
La necessità di nuovi margini interpretativi
Quello che si percepisce, anche alla luce delle pronunce della Suprema Corte, è una consapevolezza a tratti paralizzante in capo all’organo giudicante riguardo la delicatezza della questione sottesa, al punto tale da dover imporre confini rigidissimi alla fattispecie in esame, con il rischio però di rimanere schiacciati da elementi comprimari e non indicatori, in pratica decidendo ex ante di non decidere.
Ed infatti, posto che la condotta del lavoratore che usufruisce contra legem dei permessi per l’assistenza a portatori di handicap integra un disvalore sociale, dal momento che, così facendo, egli scaricherebbe il costo delle proprie esigenze sull’intera collettività, con conseguenze anche sulla gestione e organizzazione aziendale, la scelta della magistratura è stata quella di catalogare – in compartimenti stagni – la fattispecie, ritenendo la condotta del lavoratore che presta assistenza al familiare abusiva e lesiva del vincolo fiduciario ogni qualvolta lo stesso non dimostri di aver trascorso l’intera giornata con il familiare disabile.
Ora, se è vero che la fruizione dei permessi ex l. 104/92 non può ricoprire il ruolo di funzione compensativa del dipendente e che quest’ultimo è tenuto sempre e comunque ad agire nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede tanto verso il datore di lavoro quanto nei confronti dell’ Ente Previdenziale, resta altrettanto pacifico, ad avviso di chi scrive, come l’accertamento relativo all’abuso o al corretto utilizzo dei suddetti permessi non possa limitarsi a constatare in che percentuale il caregiver sia stato con il disabile o la modalità con cui il tempo sia stato impiegato.
C’è bisogno dunque, di un’interpretazione del concetto di assistenza decisamente più ampia e, in qualche modo più empatica. Posto che il sostegno al disabile si debba atteggiare in modo tale che il fruitore del permesso debba sempre svolgere un’attività diretta o indiretta purché volta a rendere meno penosa la condizione del familiare bisognoso, l’assistenza non potrà tradursi in una contemplazione del disabile ventiquattro ore al giorno imponendo al caregiver, in maniera neanche poi così velata, di azzerare del tutto i propri interessi.
E proprio su questa linea interpretativa più ariosa la Giurisprudenza sta provando a ‘ricalibrare il concetto di assistenza, non riducendo la stessa a mero supporto personale al disabile presso la sua abitazione, ma comprendendola anche nello svolgimento di tutte le attività complementari che il familiare bisognoso di ausilio non sia nelle condizioni di compiere autonomamente, quali fare la spesa, prelevare soldi al bancomat, pagare le bollette, ecc..
Ecco, dunque, dove deve tararsi il nuovo punto di caduta nella valutazione circa la legittimità o meno della fruizione dei permessi ex l. 104 per chi assiste un parente disabile, e dove l’organo giudicante deve andare ad indagare con tutti i suoi poteri istruttori. Ci si dovrà domandare se nel corso del giorno di permesso richiesto il caregiver abbia posto in essere almeno un’azione diretta o indiretta in favore del parente che, in quanto disabile, non sarebbe stato in grado di farvi fronte indipendentemente. Ciò rendendo non dirimente il fatto che l’assistenza sia stata data nel corso dell’orario di lavoro o in via prevalente o presso l’abitazione del disabile.
Ecco tracciato il nuovo periodo di oscillazione del pendolo entro cui il giudice dovrà porre il proprio vaglio, delineando una nuova demarcazione del confine tra l’uso lecito e quello illecito, ascrivendo finalmente nel primo caso la condotta del caregiver che, nelle giornate di permesso ex l. 104 ha espletato ANCHE attività volte a finalizzare scopi personali, purché abbia ottemperato in modo sufficiente all’assistenza del parente disabile.
Sennonché, se è vero che sembrerebbe essersi aperto uno spiraglio che lascerebbe intuire un’interpretazione più estensiva del concetto di assistenza, è evidente che sul punto il pensiero della Suprema Corte è ancora fortemente ondivago.
Se da un lato si sta assistendo ad una serie di pronunce volte a sponsorizzare una nuova veste di assistenza autonoma nelle sue modalità e forme, purché sempre traducibile in attività svolte nell’interesse del familiare bisognoso, risultando dunque imprescindibile la sussistenza di una relazione causale diretta ed indiretta con l’interesse del familiare assistito, resta tuttora forte la giurisprudenza di segno opposto.
Certo è che se i giorni di permesso non possano rappresentare l’equivalente delle ferie (anche se, ad avviso di chi scrive, il ristoro psico-fisico del lavoratore che assiste il parante disabile è un elemento valutativo che dovrebbe essere quantomeno preso in considerazione anche in sede di giudizio, dal momento che lo stato psichico e fisico del caregiver impatta in modo davvero evidente anche su quello del disabile assistito), allora nel corso delle giornate di permesso ex l. 104/92 l’assistente potrà almeno espletare attività volte a finalizzare anche scopi personali, senza però venir meno in modo sufficiente agli obblighi di assistenza del parente disabile.
In conclusione
Al fine di vagliare se l’assistenza al disabile possa ritenersi legittima, il Giudice dovrà uscire dall’ordinata del tempo e dall’ascissa del luogo in cui si svolge l’assistenza.
Ciò perché il lavoratore ha il diritto di graduare l’assistenza al disabile nel rispetto di orari e modalità flessibili che – tenendo conto della necessità del beneficiario – non per forza devono coincidere con un’assistenza ventiquattr’ore al giorno o nel preciso lasso di tempo coincidente con l’orario lavorativo; così come non per forza l’assistenza dovrà consumarsi nell’abitazione del disabile, ben potendo l’assistente svolgere altre attività lecite purché espletate con costanza e che ricomprendano almeno una delle attività che il disabile necessita ma che non è in grado di espletare autonomamente.
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