La sofferenza psichica è ormai condizione di massa, l’unica unificante delle identità lavorative in frantumi. Si è aperta la strada a una violenza sistemica, frutto dell’avvenuta trasformazione del lavoratore da soggetto dell’obbedienza a soggetto della prestazione eroica. Che fare?
Il mobbing nasce come campo di addestramento paramilitare di quel cambio di paradigma in cui lo strumentario del potere aziendale ha cessato di avere per oggetto solo le funzioni, i ruoli e le mansioni dei lavoratori, per puntare alla loro intera vita. È un termine che è stato coniato negli anni Settanta e si afferma nella psicologia del lavoro negli anni Ottanta. Ci mette quasi due decenni in Italia a sfociare in una tutela giudiziaria con le due sentenze del Tribunale di Torino, rispettivamente del 16 novembre 1999 e 30 dicembre 1999, le prime storicamente su questo tema. È una tutela che nasce tardi ma anche male: per accedere alla fattispecie protetta è indispensabile che vi sia terrore psicologico indotto da atti e comunicazioni ostili da parte di più individui contro un singolo che è privato di difesa ed inchiodato per mezzo di attività mobbizzanti che devono essere continue (una volta a settimana, più o meno), perduranti nel tempo (almeno sei mesi), e di cui è la persona mobbizzata a dover dare interamente prova. Ma tanto è parziale e debole la risposta giudiziaria tanto più si diffonde invece la parola, il “mobbing” diventa un contenitore vuoto che si riempie a dismisura raccogliendo ogni sfumatura della sofferenza psicologica sul lavoro. Ed infatti è stato solo l’apprendistato di una forma di produzione che abbisogna di una nuova forza lavoro e cioè le emozioni, i sentimenti, i desideri, le relazioni.
E se l’esito della “violenza” sul lavoro inteso come estrazione estrema di energie fisiche consisteva (e consiste) nella morte per stanchezza dei lavoratori, così l’esito dell’estrazione estrema di lavoro inteso come dispendio delle energie emotive consiste nella forma mortale della sofferenza psichica, sofferenza che – a diverse gradazioni – è divenuta condizione di massa, forse l’unica oggi davvero unificante delle varie identità del lavoro in frantumi. Beninteso, il mobbing “classico” continua ad esistere, ed anzi cresce quantitativamente. Ma ha perso il suo ruolo di indicatore del processo in atto, e cioè non è più causa ma effetto della svalorizzazione del lavoro e si diffonde esattamente come storicamente si sono diffuse pratiche perverse nelle istituzioni in crisi più o meno chiuse (le caserme e il nonnismo, le scuole e il bullismo, ecc. ecc.). Questa nuova forma di produzione, dopo aver testato che la sofferenza psichica produce valore (eccome), non ha più avuto stretto bisogno del mobbing, che pure ha alcune controindicazioni quali il crollo della produttività del mobbizzato, il rischio risarcitorio, lo sviamento delle energie di capi e colleghi in attività non direttamente produttive. Ma questi sono costi affrontabili, ciò che non può invece essere sopportato è che il mobbing produce (può produrre) ciò che vorrebbe reprimere e cioè resistenza da parte del lavoratore, essendoci sempre uno scarto possibile tra l’obiettivo della violenza e la reazione che quella innesca. E questo è un problema nella misura in cui il meccanismo del mobbing è puramente immunitario, teso cioè a sopprimere il diverso, essendo quindi la sopravvivenza del negativo di per sé un fallimento, a prescindere da quanto sia piccolo il virus e grande il corpo che né è infetto. Ed allora è stata indispensabile una trasfusione di sangue per rendere l’Rh del lavoratore nascituro conforme a quello della madre azienda. È stata cioè avvertita la necessità di produrre una violenza senza ostilità, che sia immanente al sistema lavoro e non nasca per reazione al “diverso”. Il vero salto d’epoca (che però ci è sfuggito in quanto avvenuto senza epochè, senza sospensioni né fermate) è stato allora unificare nello stesso corpo il padrone ed il servo, processo descritto con efficacia dalla retorica dei lavoratori imprenditori di sé stessi o nella falsa promessa del professionismo ordinistico applicata al nuovo proletariato cognitivo.
E per effettuare questo salto di specie è stata trovata una strada semplice ricorrendo al cosiddetto usato sicuro, nel prendere cioè qualcosa che aveva funzionato sterilizzandola dai suoi esiti indesiderati: la riforma protestante, ma senza lo straordinario effetto liberatorio della protesta. Ebbene se la scolastica diceva “non sola Gratia” ma anche “Natura” la riforma rispondeva “sola Gratia”. Al “non sola Fide, sed etiam Operibus” la risposta era “sola Fide”. E così al “non sola Scriptura, sed etiam Ecclesia” si opponeva il “sola Scriptura”. Ugualmente al passaggio del secondo millennio si è imposta una teologia del lavoro per cui non c’è più la Natura (e cioè il corpo, le sue capacità, inclinazioni e bisogni in cerca di riconoscimento, anche giuridico) ma solo la Gratia (e cioè il merito, primo elemento prometeico della narrazione tossica dell’imprenditore di sé stesso). Non c’è più salvezza che si raggiunge Operibus (e cioè con il lavoro ed il suo corredo storico di diritti) ma solo con la Fide (e cioè con la fiducia nelle tecnologie del sé declinate in termini di self coaching, personal branding, ingegnerizzazione del fitness ecc. ecc.). E viene meno ogni Ecclesia (e cioè tutte le centrali di socialità) rimanendo il lavoratore da solo ad interpretare e fronteggiare il mondo. In questo modo si apre la strada ad una violenza sistemica, frutto dell’avvenuta trasformazione del lavoratore da soggetto dell’obbedienza a soggetto della prestazione eroica. Con l’obbedienza la sofferenza nasceva dalla percezione di essere stati incatenati alla volontà di qualcun altro. Con l’imperativo prestazionale si finisce per usare violenza a sé stessi e ad immaginarsi liberi mentre si è ancor più in catene. E questo conduce a imputare a sé stessi il dolore dell’immancabile fallimento nella riuscita della performance, sempre impossibile in una società per cui nulla è impossibile. Insomma con il servo che si mette al posto del padrone riaccade quello che per Nietzsche è successo con l’uomo che si è messo al posto di Dio, e cioè si è scoperto ancora più impotente ed infelice, perché relativamente al posto che Dio occupava nella società premoderna ciò che andava soppresso non era Dio, ma il suo posto. Ed è per questo che, in “Così parlò Zarathustra” l’assassino di Dio è “l’uomo più brutto”, spiegandoci Deleuze come “Nietzsche vuol dire che l’uomo si imbruttisce ancora di più quando, non avendo un’istanza esterna, si proibisce da sé ciò che gli viene proibito, e si carica spontaneamente d’un ordine e di fardelli che non gli sembrano neppure più venire dall’esterno”.
È in questo contesto che vanno pensati i primi lineamenti di una teoria e una prassi di reazione alla “riforma non protestante del lavoro”. E, come Pollicino nel bosco, occorre allora intraprendere la strada inversa, seguendo le molliche di pane nella consapevolezza però di non poterle raccogliere sino al punto di partenza (il lavoro del novecento), che – esattamente come accade nella fiaba – non è il punto della salvezza ma l’origine attiva del perdersi. Dobbiamo cioè rilanciare nel campo avverso i lacrimogeni autocolpevolizzanti che ci hanno sparato addosso con tutte le esternalità negative impropriamente scaricate sul lavoratore, ma il nostro obiettivo (di lungo periodo) è quello, dopo esserci alzati, di distruggere la sedia di tortura dell’imprenditore di se stesso e non certo di tornare a farci accomodare sopra il padrone. E allora bisogna partire dal recupero di Opera, Natura ed Ecclesia. E tale recupero deve avvenire contemporaneamente tramite l’agire congiunto dei tre campi di forza chiamati ad effettuarlo. Due di essi appartengono già allo strumentario novecentesco: le Operae e cioè il lavoro ed il suo diritto, nonché l’Ecclesia e cioè le organizzazioni dei lavoratori chiamate ad un recupero del “sacro”, inteso come stabilizzazione nel senso e nel tempo.
Ma c’è assolutamente bisogno della terza forza, la Natura. Sul piano generale è indispensabile un attacco critico dall’interno alla psicologia positiva del lavoro, con la sua variante dell’economia comportamentale, che è ad oggi la punta di lancia dell’ortopedia coatta dell’io al lavoro. Ma ciò che più rileva è che è divenuto assolutamente indispensabile per chiunque voglia occuparsi di lavoro affiancare all’indagine sul corpo sociale (societas exterioris) quella sul corpo biologico-emozionale di ciascuno dei suoi membri (societas interioris). Invero già Spinoza diceva come “il corpo umano è composito da moltissimi individui” e comunque l’emersione dell’inconscio ha più di un secolo. Ma la novità radicale – per la riflessione che ci occupa – è che di questi moltissimi individui si sono oggi imposti, all’interno di ogni corpo umano al lavoro, quelli del servo e del padrone, in stretta connessione con l’avvenuto asservimento e messa a valore dell’economia libidica da parte dell’economia politica. In questo modo la lotta di classe è divenuta (anche) infrapsichica, e la prassi deve quindi da subito affiancare alla ricerca della libertà (liberale) negativa e della libertà (comunista) positiva anche la “libertà come affrancamento, il più ampio possibile, da ogni autoritarismo interno, da ogni violenza o censura interiore che un’istanza della mente pretenda di esercitare sulle altre”. Occorre cioè che questa terza forza, e cioè il sapere della psiche, affianchi ed orienti il diritto ed il sindacato nella costruzione di un costituzionalismo pratico dei bisogni in cui non esistano scale gerarchiche ma ove i bisogni di sicurezza e protezione sociale vengano insieme a quelli di autostima, dignità, autorealizzazione e appagamento personale. Insomma a questa terza forza si chiede di formare quadri del conflitto giudiziario e sindacale del lavoro che sappiano evitare la scorciatoia, invero facile quando occorre fare un percorso a ritroso, della nostalgia e del pessimismo. Che sappiano insegnare loro, cioè, a non giungere così indietro da oltrepassare la libera soggettività di ogni persona al lavoro, essendo la reale sfida che abbiamo innanzi quella di ribadire l’attuale irriducibile centralità del libero soggetto, mostrando al contempo come ora sia declinata in termini di pura apparenza e provando quindi a trasformarla in essenza. Il ruolo dell’avvocato del lavoro in questa lotta sarà invece quello di occuparsi di ciò che si fa Operibus, attualizzando (e monetizzando) il contenuto precettivo dell’art. 36 della Costituzione che dovrà essere letto in modo nuovo, per cui “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata” non solo – come hanno previsto i costituenti del ’48 – “alla quantità e qualità del suo lavoro”, ma ora anche alla sofferenza che quello richiede. E lo strumento per operare questo tentativo di recuperare (almeno in parte) il plusvalore prodotto dalla plussofferenza non è (solo) la costruzione giurisprudenziale novecentesca del mobbing, ma il d. lgs. n. 81/2008 laddove prevede tra i rischi che il datore deve prevedere e prevenire “anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato” (art. 28), che è descritto dall’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004 come una “condizione accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alla richieste o di non essere all’altezza delle aspettative”. E la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9945 del 8.05.2014, ha affermato che “la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico alla… (datrice di lavoro), la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello”.
Ma per avere una possibilità di rendere vittoriosa quest’azione è indispensabile che nella costruzione dell’atto giudiziario si attivi il protagonismo narrativo del “cliente”, in modo che le tracce autobiografiche di chi co-firma l’atto (l’avvocato) e di chi lo co-scrive (il lavoratore) confluiscano nella medesima ricerca di senso, producendo un’unica vibrazione emotiva che sappia risuonare nel corpo del giudicante, anch’esso lavoratore infelice (ed anzi abitato da passioni ogni giorno più tristi). E deve da ultimo entrare in campo l’Ecclesia, e cioè il sindacato, che è costretto a reinventarsi anche esso, a partire dalla collocazione e finalità dei suoi nodi di incontro e scambio, dovendo cioè adeguare la propria cartografia alla nuova mappa del valore e dello sfruttamento. Deve quindi porsi il problema prioritario di affiancare alla tradizionale presenza aziendale ed al ruolo altrettanto tradizionale di rappresentanza di interessi collettivi, una presenza che – per la scelta di ove concretamente posizionare i propri insediamenti e per la predisposizione degli strumenti di intervento sociale – sia capace di impattare il singolo nel momento del suo bisogno, sempre individuale ed al contempo comune. Il nuovo modello organizzativo, quindi, più che nelle precedenti esperienze del movimento operaio (incluse quelle più innovative e potenti come le carovane del lavoro degli IWW) dovrà essere ricercato in altre esperienze che hanno al cuore la cura. Occorrerà cioè puntare verso la presenza diffusa sul territorio di sedi sindacali di “lavoratori anonimi”, dovendo il sindacato divenire una grande rete sociale adattiva in cui ciascun iscritto sia a propria volta parte di un gruppo di auto aiuto specifico. Ed infatti solo dentro la scoperta del carattere comune della propria sofferenza individuale, e all’interno di un rapporto solidale e non competitivo con il gruppo di uguali che attraversano il medesimo dolore, si può oggi articolare un progetto politico che sappia tenere insieme soggettivazione e socializzazione, ricomponendo quella doppia frattura (all’interno del singolo lavoratore e nelle sue relazioni con gli altri) che oggi ci inchioda nella nostra desolata schiavitù volontaria. Infelici di tutto il mondo unitevi, anzi uniamoci.
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