L’amore è un prendere le armi, un duello contro la morte quotidiana,
contro il sacrificio perpetuo […] L’anticipazione corporeamente vissuta della dimensione in cui si realizzerà il fine:
l’inizio della nascita […]
Proprio perché è domestico, prossimo, socialmente squalificato, denigrato, devalorizzato, l’amore è il cavallo di troia con cui l’eversione si introduce
nel necrotico continuum della sopravvivenza”1 (Giorgio Cesarano)
Per questo particolare numero della nostra rivista, dolorosamente dedicato al Collega e Amico Andrea Matronola, ho scelto di scrivere sulla questione che da ultimo ho trattato con lui per una serie di giovani lavoratrici che hanno subito molestie sessuali sul luogo di lavoro, che ha scatenato in Andrea sdegno e risolutezza nell’affrontarla: sulla scorta della sua positiva rabbia sono riuscita a risolverla nel senso di un integrale risarcimento a favore delle lavoratrici.
Il 1 febbraio 2021, con la legge n. 4 del 15 gennaio 2021, lo Stato italiano ha ratificato la Convenzione ILO n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro e
la Raccomandazione n. 206 ad essa legata, che entrano in vigore 12 mesi dopo la comunicazione della ratifica da parte dello Stato Italiano agli organi ILO preposti a riceverla. Le norme della Convenzione si rivolgono agli Stati membri dell’organizzazione e definiscono una serie di principi e linee guida, da tradurre obbligatoriamente in disposizioni attuative della stessa da parte dei ratificanti. La Convenzione fa riferimento alla violenza e alle molestie sui luoghi di lavoro in generale (cioè a qualunque tipo di violenza e di molestie), ed in particolare alla violenza e alle molestie di genere e sessuali 2.
In Italia, le molestie di genere e sessuali sul lavoro rientrano nella disciplina prevista per le pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso al lavoro, nello svolgimento della prestazione di lavoro, nel trattamento salariale e retributivo e nell’avanzamento di carriera lavorativa, oltre che nella disciplina generale del divieto di discriminazioni sancito dagli artt. 3 e 37, Cost. – quest’ultimo tutela specificamente la donna lavoratrice – e della tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro .
Inizialmente vorrei porre l’attenzione sul modo in cui, nel mercato del lavoro, la posizione sociale e culturale delle donne si caratterizzi in modo peculiare, differente, necessitando di una visione «di genere» come pure intima la Convenzione.
In particolare, nonostante i tentavi agiti dalle ultime riforme del lavoro, tesi a valorizzare l’autonomia individuale delle parti contraenti, nel mercato del lavoro il legislatore (rigorosamente uomo, a conferma di quanto sostenuto da Carol Smart, sociologa inglese, che traduce lo storico dibattito anglosassone sul «femminismo giuridico» nei termini per cui «il diritto è sessista, il diritto è maschile, il diritto è sessuato») parte dall’assunto di una disparità di posizioni tra il datore di lavoro, contraente forte, e il lavoratore, contraente debole.
Per ampliare lo spettro della riflessione, con parole della Morini, “l’individualismo contrattuale, che sta alla base della precarietà giuridica del lavoro, tracima nella soggettività degli stessi individui, condiziona profondamente i comportamenti, i vissuti, gli universi di esperienza e si trasforma in precarietà esistenziale”.
Per tale ragione non solo vengono poste norme a tutela di lavoratrici e lavoratori ma, anche grazie alle lotte sui luoghi di lavoro, viene valorizzata l’autonomia collettiva di lavoratrici e lavoratori attraverso le organizzazioni sindacali e la predisposizione dei Contratti Collettivi Nazionali di lavoro, volti a porre le regole minime non derogabili in peius né dalla legge né dall’autonomia individuale. Il «datore di lavoro è il capo dell’impresa», recita l’art. 2086, c.c., detentore del potere economico, disciplinare, gerarchico, organizzativo sui propri dipendenti e sulla propria attività economica organizzata. Il lavoratore ha il governo unicamente della propria forza lavoro, che mette a disposizione del datore di lavoro in cambio della retribuzione, per garantirsi una «vita libera e dignitosa», come invece recita l’art. 36 della Costituzione in tema di retribuzione, riposi e ferie. Il datore di lavoro, proprio perché è il capo dell’impresa, ex art. 2087 c.c., «è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
In questa posizione di squilibrio ontologico in termini di potere contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore, è evidente che le lavoratrici – oltre a subire al pari dei lavoratori il potere datoriale – hanno subito e continuano a subire il potere patriarcale e paternalista, che va dal mancato riconoscimento del lavoro di cura strettamente inteso in ambito familiare e dalla percezione di una sorta di predeterminazione naturale e automatica a svolgerlo (il cosiddetto lavoro riproduttivo) alla disparità salariale o retributiva, passando per una molteplicità di discriminazioni “indirette”, ovvero quelle discriminazioni determinate da norme/comportamenti che appaiono neutri, e che proprio in quanto tali – in contrasto con la declinazione del
principio di uguaglianza sostanziale che vuole si trattino situazioni differenti in modo diversificato a seconda delle specificità – determinano disparità di trattamento nella loro applicazione concreta. È proprio per il costo decisamente inferiore della forza-lavoro femminile che, originariamente, il modo di produzione capitalista ne determina l’impiego nei più disparati ambiti di produzione, già dall’ottocento (il lavoro delle donne nelle campagne non veniva retribuito). Violenza e molestie di genere e sessuali, che come sappiamo e (purtroppo) verifichiamo ogni giorno hanno radici storicizzate, si riversano in ogni ambito delle vite quotidiane delle donne e sui loro corpi e, dunque, anche sul lavoro. Come vedremo, la questione della violenza e delle molestie si connette a quel,,,,,,,,la della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, oltre che configurare una violazione dei diritti umani, come pure la Convenzione ribadisce ripetutamente.
Quando si parla di violenza economica nei confronti delle donne, quindi, questa va caratterizzata sotto due profili: uno familiare, legato alla posizione di svantaggio economico e lavorativo cui le donne sono state relegate (che in molti casi replicano attivamente) e al prevalente lavoro femminile all’interno della famiglia e per la cura della stessa; l’altro legato alla violenza economica sistemica che deriva dall’organizzazione della società e del lavoro ancora oggi, dal mancato riconoscimento della differenza che le donne agiscono, producono e vivono nella società, e che, nonostante l’esistenza di un’uguaglianza formale tra uomini e donne, rendono necessarie delle misure per tradurre questa formalità in sostanza.
Poiché, quindi, è della vita delle persone ciò di cui in fatto si scrive e della disciplina dei corpi, occorre tenere a mente che “il lavoro si ristruttura, sussunto nel dispositivo di biopolitica che punta a un più diffuso controllo e impiego della vita, stravolgendo la classica separazione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, tra produzione e riproduzione, insomma, appunto, tra vita e lavoro5”
Questo alveo, di certo troppo brevemente descritto, è il presupposto su cui si incardina anche la Convenzione ILO n. 190, che ruota intorno a diverse direttrici: quella della «protezione e prevenzione», quella della «verifica dell’applicazione e meccanismi di ricorso e risarcimento», e quella dell’«orientamento formazione e sensibilizzazione», in materia di violenza e molestie sui luoghi di lavoro. Un lavoro importante, certamente, la Convenzione lo svolge innanzitutto sulle definizioni, eliminando da quella della violenza e delle molestie di genere e sessuali l’elemento soggettivo dell’intenzionalità delle condotte violente e moleste, difficilissimo da provare in giudizio.
Infatti l’espressione “violenza e molestie” nel mondo del lavoro indica un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili o la minaccia di porli in essere – sia in un’unica occasione sia ripetutamente – che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere; con l’espressione “violenza e molestie di genere” si indica la violenza e le molestie nei confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscano in modo sproporzionato persone di un sesso o genere specifico, ivi comprese le molestie sessuali. L’obiettivo della Convenzione è quello di instaurare un clima e un sistema normativo di tolleranza zero nei confronti di queste condotte, che tenda a creare un tessuto di protezione intorno a chi
le subisce e rimedi efficaci ed efficienti per determinarne l’interruzione e garantire un ristoro reale. Un obiettivo significativo sotto il profilo pratico, in quanto colma una lacuna del nostro ordinamento nell’ambito del diritto del lavoro, essendo determinato dall’ambito di applicazione della Convenzione stessa, dal momento che estende le tutele e la protezione previste per le lavoratrici e i lavoratori – come definite dalle pratiche e dal diritto nazionale – anche alle persone che lavorano indipendentemente dallo status contrattuale. Inoltre allarga tali garanzie anche alle persone in formazione professionale – inclusi tirocinanti e apprendisti – alle lavoratrici e ai lavoratori licenziati, ai volontari, alle persone alla ricerca di un impiego o candidate a un lavoro, fino agli individui che esercitino l’autorità, i doveri e le responsabilità di datrice o datore di lavoro – comprendendo anche le forme di lavoro non regolarizzato – sia sotto il profilo dell’obbligo di tutela che sotto quello speculare delle responsabilità di chi esercita il potere datoriale, indipendentemente dall’esistenza di un contratto di lavoro (art. 2, C129). La Convenzione si applica a tutti i settori, sia privato che pubblico, all’economia formale e informale, alle aree urbane o rurali e ai cosiddetti «gruppi vulnerabili», indicati nella raccomandazione ad esempio nei lavoratori e lavoratrici migranti. La Convenzione si applica alla violenza e alle molestie nel mondo del lavoro che si verifichino in occasione di lavoro, in connessione con il lavoro o che scaturiscano dal lavoro: nel posto di lavoro, ivi compresi spazi pubblici e privati laddove questi siano un luogo di lavoro; in luoghi in cui la lavoratrice o il lavoratore riceve la retribuzione, in luoghi destinati alla pausa o alla pausa pranzo, oppure nei luoghi di utilizzo di servizi igienico-sanitari o negli spogliatoi; durante spostamenti o viaggi di lavoro, formazione, eventi o attività sociali correlate con il lavoro e in quelli per recarsi e rientrare dal lavoro; a seguito di comunicazioni di lavoro, incluse quelle rese possibili dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; all’interno di alloggi messi a disposizione dai datori di lavoro.
Con le parole di Cristina Morini “il concetto di lavoro contemporaneo si va sempre più estendendo alla dimensione riproduttiva, intesa come lavoro socializzato, innervato dall’insieme delle attività, degli scambi e delle relazioni umane. Tale modificato contesto riproduttivo scompagina e ibrida i rapporti tra produzione e riproduzione (nel suo significato Marxiano di valore d’uso, precisa la Morini), tra tempo di lavoro e tempo libero, tra i luoghi tradizionali del lavoro e della vita privata (fabbrica/ufficio-casa), si espande ben al di fuori della certificazione dell’attività lavorativa in termini di tempo e soprattutto della sua remunerazione, mostrando alcuni interessanti assonanze con il modello storico del lavoro riproduttivo (gratuito) delle donne”.
La Convenzione afferma che violenza e molestie costituiscono una violazione o un abuso dei diritti umani e riconosce il diritto di tutte/i ad un mondo del lavoro libero da violenza e molestie, da rispettare e promuovere, obbligando gli Stati ad adottare un approccio inclusivo, integrato e basato sul genere che contempli l’attuazione di misure di prevenzione e contrasto alla violenza e molestie nel mondo del lavoro, in materia di prevenzione e controllo, attraverso l’adozione e attuazione di una politica a livello aziendale in materia di violenza e molestie; obbliga a includere la violenza e le molestie nella gestione della salute e sicurezza sul lavoro, identificando i pericoli e valutando i rischi relativi alla violenza e alle molestie, adottando misure adeguate per i settori o le professioni e le modalità di lavoro che presentino una maggiore probabilità di esposizione alla violenza e alle molestie, come il lavoro notturno, il lavoro svolto in maniera isolata, il settore sanitario, il settore dei servizi di alloggio e ristorazione, i servizi sociali, i servizi di emergenza, il lavoro domestico, il settore dei trasporti, dell’istruzione e dello spettacolo, della cultura e dell’intrattenimento, dell’università.
I Membri dovrebbero adottare provvedimenti legislativi o altre misure per proteggere dalla violenza e dalle molestie nel mondo del lavoro i lavoratori migranti, in particolare le lavoratrici migranti – indipendentemente dallo status di migrante – nei paesi di origine, transito e destinazione, a seconda dei casi. Vengono imposti obblighi di informazione e soprattutto formazione a livello aziendale, sindacale, giudiziale, coinvolgendo gli organi ispettivi a trattare il fenomeno delle ripercussioni della violenza domestica nel mondo del lavoro, chiedendo di riconoscerne gli effetti nel mondo del lavoro e attenuandone l’impatto nella misura in cui ciò sia ragionevolmente fattibile. La convenzione ribadisce l’importanza della contrattazione collettiva, delle relazioni industriali e del coinvolgimento di lavoratrici/tori e dei loro rappresentanti nella definizione delle misure da adottare per eliminare i fenomeni trattati. Quanto ai meccanismi di ricorso, risarcimento e assistenza la Raccomandazione 206 indica un nucleo minimo e non esaustivo di misure, tra cui l’inclusione del diritto alle dimissioni con indennità, del reintegro nel posto di lavoro, di un risarcimento dei danni adeguato, di ordini che prevedano l’adozione di misure immediatamente esecutive al fine di garantire la cessazione di determinati comportamenti o la modifica di politiche o pratiche; la previsione di spese legali e onorari conformi alla legislazione e alle pratiche nazionali e di misure di protezione per le persone offese e i testimoni. Le persone offese da violenza e molestie nel mondo del lavoro dovrebbero poter accedere a risarcimenti in
caso di lesioni o malattie di natura psicosociale o fisica o di qualsiasi altra natura che causino inabilità lavorativa.
I meccanismi di denuncia e risoluzione delle controversie dei casi di violenza e molestie di genere di cui all’articolo 10 della Convenzione dovrebbero prevedere: tribunali che posseggano esperienza di casi di violenza e molestie di genere; il trattamento tempestivo ed efficace dei casi; consulenza legale e assistenza per querelanti e persone offese; guide e altre fonti di informazione disponibili e accessibili nelle lingue maggiormente diffuse nel paese; l’inversione dell’onere della prova, a seconda dei casi, in procedimenti diversi da quello penale; il supporto al reinserimento delle persone offese nel mercato del lavoro; servizi di consulenza e informazione in modalità accessibili a seconda dei casi; servizi di ascolto telefonico disponibili 24 ore al giorno (in Italia esiste il 15227); servizi di emergenza; assistenza, cure mediche e supporto psicologico; centri per la gestione di crisi, inclusi alloggi protetti; unità di polizia specializzate o agenti di polizia con formazione specifica al supporto delle persone offese. Gli ispettori del lavoro e i funzionari di altre autorità competenti, a seconda dei casi, dovrebbero ricevere una formazione sui temi di genere al fine di identificare e intervenire sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro, ivi compresi i pericoli e i rischi psicosociali, la violenza e le molestie di genere e la discriminazione di gruppi specifici di lavoratrici e lavoratori.
Quanto all’orientamento, alla formazione e alla sensibilizzazione, gli Stati membri dovrebbero finanziare, sviluppare, attuare e diffondere, a seconda dei casi: programmi che intervengano sui fattori che aumentano la probabilità della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro, inclusi la discriminazione, l’abuso dei rapporti di potere e le norme sul genere, quelle culturali e sociali che favoriscono la violenza e le molestie; linee guida e programmi di formazione che tengano conto della prospettiva di genere e che supportino giudici, ispettori del lavoro, agenti
di polizia, pubblici ministeri e altri funzionari pubblici nell’adempimento del proprio mandato in materia di violenza e molestie nel mondo del lavoro, oltre a supportare le datrici e datori di lavoro del settore pubblico e privato, le lavoratrici e lavoratori e le rispettive organizzazioni nella prevenzione e negli interventi relativi alla violenza e alle molestie nel mondo del lavoro; modelli di codici di condotta e di strumenti di valutazione del rischio in materia di violenza e molestie nel mondo del lavoro – di natura generale e specifici per settore – che tengano conto delle situazioni specifiche delle lavoratrici e lavoratori e di altri soggetti appartenenti ai
gruppi di cui all’articolo 6 della Convenzione; campagne pubbliche di sensibilizzazione nelle diverse lingue del paese, incluse quelle delle lavoratrici e lavoratori migranti residenti, che trasmettano il messaggio dell’inaccettabilità della violenza e delle molestie, in particolare della violenza e delle molestie di genere, affrontino gli atteggiamenti discriminatori e prevengano la stigmatizzazione delle persone offese, querelanti, testimoni e degli informatori; programmi
e materiali didattici sulla violenza e sulle molestie – inclusi la violenza e le molestie di genere – che tengano conto della prospettiva di genere, per tutti i livelli di istruzione e formazione professionale, in conformità con la legislazione e le circostanze nazionali; materiale per giornalisti e altri operatori dei mezzi di comunicazione sulla violenza e le molestie di genere, che includa le cause all’origine e i fattori di rischio, nel pieno rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione; campagne pubbliche miranti alla promozione di luoghi di lavoro sicuri, salubri, armoniosi e liberi dalla violenza e dalle molestie.
Chiudo questa disamina che dovrebbe certamente essere più complessa e completa, evidenziando come la legislazione italiana sul tema sia già completa della gran parte di queste previsioni, sotto i diversi profili di cui la Convenzione si occupa, e ciò anche e soprattutto grazie alla produzione normativa europea, alla giurisprudenza della Corte di Giustizia e delle Corti nazionali. Ciononostante, si registra una sostanziale inapplicazione delle norme in tema di violenza e molestie di genere e sessuali e di tutela antidiscriminatoria, e tale dato, a mio avviso, è legato alla totale assenza di formazione, informazione e sensibilizzazione sotto forma di obblighi nei confronti di tutti i soggetti coinvolti: organi di stampa e informazione massmediatica, datori/datrici di lavoro, consulenti tecnici, giudici, forze di polizia, ispettori/ispettrici del lavoro, consigliere di parità regionali e degli enti locali e Comitato nazionale di parità, oltre che lavoratrici e lavoratori e luoghi deputati all’istruzione. La ratifica della Convenzione ILO n. 190 su violenza e molestie nel mondo del lavoro rappresenta un’opportunità per migliorare, in termini di effettività, efficacia e dissuasione, la normativa italiana, anche finalmente individuando una serie di azioni positive concretamente applicabili.
Sollecito e auspico che in questo tempo che intercorre tra l’entrata in vigore e l’applicazione sul piano nazionale della Convenzione si riesca a lavorare insieme, movimenti, associazioni, sindacati, organizzazioni, lavoratrici e lavoratori: attraverso il valore delle esperienze – che occorre tradurre nelle norme perché queste ultime siano giuste e concretamente applicabili – e delle mobilitazioni, cogliendo così l’occasione per contribuire a colmare l’enorme disparità di trattamento e le pervasive forme di violenza e molestie ancora presenti nella nostra società, tutt’altro che civile, e nel mondo del lavoro, applicando una visione ed una critica femminista. Partendo da me, mi riservo anche di collaborare e lavorare, nelle sedi opportune, su proposte di modifica e implementazione della normativa italiana vigente, sotto il profilo tecnico/giuridico.
“L’isolamento è, risaputamente, una forma di tortura che il corpo avverte, che fa anche esso ammalare. L’individuo ha necessità di sperimentare ed esprimere la propria unicità, ma non a prezzo della solitudine e della abolizione del suo bisogno di appartenenza, della dissoluzione dei legami con il corpo collettivo […] È questa la sfida principale del capitalismo contemporaneo. La riduzione dei corpi – e non del lavoro – a strumento alienato, poiché il nostro lavoro passa dai corpi. Tale alienazione genera senso infinito di perdita, che produce smarrimento e favorisce precarietà esistenziale. La personalità depressiva che connota il nostro tempo è depressa dal suo sapersi frantumata, non può amare l’altro perché è incapace di voler bene anche a se stessa8”.
Per concludere, uscire fuori dall’isolamento, predisporre strumenti di emersione e di sostegno avversi alle molestie sessuali e di genere sui luoghi di lavoro, passa anche dalla rinnovata necessità di organizzare strumenti collettivi, che sfondino la solitudine strutturale in cui siamo relegati, e che però forniscano strumenti sindacali, di un sindacalismo femminista, come ho accennato anche nel numero precedente della rivista, che aggiornino le modalità di azione sindacale, tenendo conto del mutato contesto lavorativo e del tutt’ora immutato stato diseguale delle relazioni di produzione e prevaricazione. Concludo con le parole della Morini, condividendo che “ecco perché riprendersi i corpi deve passare da quel motore intelligente che tiene viva la speranza, l’amore”.
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