Il diritto del lavoro degli ultimi 20 anni racconta di una lotta di classe agita da una parte sola, dove noi siamo arcieri a cui sfilano le frecce dalla faretra nel corso del combattimento. Faccio fatica a ricordare una normativa cardine del diritto del lavoro tradizionale che non sia stata ritoccata.
In questo quadro, gli avvocati giuslavoristi che, come Andrea Matronola, hanno scelto di stare dalla parte dei lavoratori, sono stati chiamati ad uno sforzo teorico specifico: aggrapparsi alle radici forti del diritto del lavoro, urlare i principi costituzionali, fare valere l’intenzione del legislatore che, per fortuna, è una cosa diversa dall’intenzione di Deputati e Senatori.
Ma è una teoria che nasce dalla pratica, un’elaborazione nervosa che muove dai problemi che ti pongono persone che guardi negli occhi.
Fermarsi un attimo a raccogliere le idee è un dovere e un’occasione.
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Vorrei tentare una riflessione sul cambiamento dei concetti di lavoratore e imprenditore, che molto influenza sia i redattori delle norme (ripeto il legislatore è un’altra cosa) che gli interpreti.
Quando i Costituenti elaborarono la Carta Costituzionale i concetti abitavano ambiti diversi.
Lavoratore era un concetto trasbordante l’etimologia, che designava una funzione nella società: Lavoratore era colui che con la sua attività, il lavoro appunto, contribuiva al progresso della società. Come popolo, il concetto di lavoratore aveva una valenza mitica, una connotazione senz’altro positiva.
Si mostra significativo, in questo senso, il dibattito dei Costituenti sul testo dell’art. 1 della Costituzione.
Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista, durante i lavori preparatori, propose il seguente testo “Lo Stato Italiano è una repubblica democratica di lavoratori”, dichiarandosi disposto che “per evitare equivoci, l’aggiunta potrà anche essere ampliata in: «lavoratori del braccio e della mente»”. L’on. Lelio Basso precisava che “il termine «lavoratori» rispecchia tutti coloro che esplicano un’attività sociale, ed è quindi escluso il timore di interpretazioni arbitrarie”. Lelio Basso, in un passaggio successivo, conferiva al termine lavoratori la capacità di modernizzare quello di democrazia. Dal suo canto, la Democrazia Cristiana non negava la valenza progressista del termine lavoratori, era invece preoccupata della sua imponenza ideologica. Il termine era troppo politico, insomma.
Ma è stata la stessa Democrazia Cristiana a proporre il testo definitivo, a riconoscere il valore fondativo del termine lavoro.
La carica positiva dei termini lavoro e lavoratore (o lavoratori) ha dunque informato tutto il testo costituzionale, in cui sono citati complessivamente per 28 volte.
Il termine imprenditore, invece, aveva una valenza tecnica, tanto da non essere mai citato nella Carta Costituzionale. Va ricordato che all’interno dell’Assemblea Costituente erano presenti con forza equiparabile sia i Partiti di Sinistra (Partito Comunista Italiano e Partito Socialista di Unità Proletaria), sia la Democrazia Cristiana, oltre che in misura minore altre componenti di diversa estrazione, compresa quella liberale; la Carta Costituzionale rispecchia quindi un compromesso tra le diverse anime.
Nessuno però aveva una forma mentale tale da assegnare al termine imprenditore una valenza politica. Forse Borghesia, era il concetto che riempiva lo spazio concettuale opposto a lavoro e lavoratori. Ma imprenditore e impresa erano termini che riguardavano la tecnica del diritto e l’economia.
Preciso che non sono né uno storico, né un sociologo, né un economista, conto mi perdoniate se considerazioni che invadono altre materie non fossero rigorose.
A mio parere, il quadro odierno è pressoché ribaltato, poiché una nuova visione si è imposta nel senso comune. Adesso è l’Imprenditore a contribuire al benessere collettivo. Con un gioco di prestigio, il profitto è divenuto valore di tutti, l’essersi “fatto da solo” una virtù.
La radici del cambiamento non vanno ricercate nella linguistica, ma nel progetto politico liberista, da sempre consapevole che per imporre l’individualismo e lo sfregio per lo stato sociale, non era sufficiente incidere sull’economia. Margaret Thatcher lo ha spiegato bene: “l’economia è il mezzo: l’obiettivo è cambiare il cuore e l’anima”. E così è avvenuto.
La connotazione in positivo del termine imprenditore è stata preliminare ad un ulteriore passaggio: la sua imposizione, fino ad invadere il campo avversario.
Valga una sorta di sillogismo: tutti devono essere buoni, l’imprenditore è buono, tutti devono essere imprenditori.
Tutti, compresi i lavoratori.
E allora emerge l’obiettivo giuridico di questo bombardamento ideologico, ovverosia abbattere il rapporto di lavoro subordinato.
Come è noto, gli elementi costitutivi del contratto di lavoro subordinato si desumono dall’art. 2094, che è la porta di accesso alla costruzione eretta faticosamente in 150 anni di lotte operaie.
Cose impensabili, quasi magiche, addirittura ingiuste secondo le logiche del diritto privato classico impostato sulla uguaglianza formale tra i contraenti. Un contratto, seppure di durata, in cui una parte non può recedere, mentre l’altra riceve emolumenti anche in caso di sospensione, in cui il corrispettivo sfugge all’autonomia delle parti.
Di conseguenza i valori del lavoro non sono più tali. È deprecabile desiderare di avere un orario di lavoro e una retribuzione fissi, di essere sostenuti da uno Stato sociale, di non correre un rischio di impresa. D’altra parte, collaborare con dedizione e contemporaneamente confliggere con determinazione in azienda è considerato un comportamento contradditorio.
I nuovi desideri dovrebbero essere la flessibilità e la propensione al rischio, e il datore di lavoro e il lavoratore/imprenditore dovrebbero sempre condividere orizzonti e destino comune.
L’attacco, almeno inizialmente, non è stato frontale, ma è avvenuto attraverso una “fuga dal lavoro subordinato”, con la creazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti Co.Co. Co). Il nuovo senso comune – che altro non era che un punto di vista di parte travestito da neutralità – è stato tanto potente da prescindere dall’intervento normativo. Infatti, non esisteva una norma sostanziale che istituiva i Co.Co.Co, ma solo una norma processuale – l’art. 409 c.p.c. – che dichiarava di applicare la disciplina del processo del lavoro anche a “rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
Il resto lo ha fatto la società, una società in cui decideva il più forte, a volte convincendo anche i più deboli: “Come è noto, poi, a partire dagli anni novanta più fattori – spesso combinati tra loro – hanno determinato un consistente processo sociale di creazione, da parte dell’autonomia privata, di schemi negoziali riconducibili alla categoria delle collaborazioni coordinate e continuative. Questo processo, la cui convenienza per i committenti derivava dai forti differenziali di trattamento economico e normativo esistenti tra il lavoro subordinato e quello autonomo, è peraltro avvenuto nel pieno rispetto della legge [processuale NDA].
[…] E questo processo sociale è stato talvolta favorito dalla propensione dei lavoratori – particolarmente evidente soprattutto nelle aree economicamente più sviluppate e dinamiche del Paese – a scegliere occasioni di impiego e formule negoziali che garantissero loro una maggiore libertà nella gestione del proprio tempo, oppure un maggior grado di gratificazione o realizzazione professionale”.
Una norma processuale pensata per allargare le maglie di un processo favorevole al contraente debole, ha dato la stura per la nascita del lavoratore parasubordinato (cioè autonomo) che dall’imprenditore prende l’immaginario e dal lavoro le fatiche, ma non più i diritti (che pertengono ai soli lavoratori subordinati).
Come è noto il legislatore quando è intervenuto non ha arginato ma favorito questa tendenza, prima rendendo convenienti i contratti di lavoro parasubordinato, poi con la creazione del lavoro a progetto ad opera del d.lgs 276/2003 e, infine, con la reintroduzione dei Co.Co.Co tramite il d.lgs. 81/2015.
A quel punto la diga è crollata, il sistema ha eliminato ogni ipocrisia ed è frequente che lavoratori pienamente inseriti nell’organizzazione altrui siano assunti in forza di contratti di prestazione d’opera professionali ex. Art. 2222 e siano costretti ad attivare una partita IVA.
In un rimpallo continuo tra ideologia e norma, è avvenuto un cambiamento radicale nella cultura del lavoro.
L’imposizione del punto di vista imprenditoriale, con il mito del profitto e del successo, ha comportato che il lavoro è divenuto pervasivo e infinito, e i lavoratori sono chiamati non solo a lavorare di più, ma sono impregnati da un messaggio che chiede di “amare il proprio lavoro”, dedicarsi al progetto aziendale, mettendo da parte i propri bisogni. A ben vedere, il Capitalismo crea un apparato di giustificazione, tentando di dare emozioni in cambio di diritti..
In definitiva, un’operazione ideologica venuta da lontano è penetrata nelle menti, nei corpi, nei contratti e nelle norme, fino a creare una figura bicefala, metà imprenditore e metà lavoratore, l’imprendicario.
Concludendo, è necessaria un’ulteriore precisazione.
Questo lavoro mira a descrivere come un fenomeno ideologico abbia inciso nella formazione dell’ordinamento. Nel fare ciò, anche per i limiti del lavoro stesso, compio necessariamente una selezione. Quanto descritto fin d’ora è solo un piccolo aspetto sia dell’attacco ideologico che dell’enorme processo di precarizzazione del lavoro avvenuto negli ultimi 30 anni. Non c’è tempo, né mi sento all’altezza di ergermi a indicatore di soluzioni. Mi limito solo a segnalare brevemente che dal punto di vista sociale la strada, che tanti percorrono con fatica, è sostenere, aiutare a organizzare e sperare nelle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori. Con quelle, speriamo verranno anche le soluzioni giuridiche.
Concludo però, con una nota di speranza:
“l’ossessione di essere felici sul lavoro, in altre parole, si basa sulla pretesa di un lavoro emozionale da parte del lavoratore. Ma il lavoro non ha sentimenti. Il Capitalismo non sa amare. Motivo per cui questa nuova etica del lavoro, basata sull’aspettativa che il lavoro ci offra qualcosa di simile all’autorealizzazione, non può che fallire”
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