L’emergenza sanitaria ha quasi azzerato gli spostamenti per lavoro, vacanze o altri motivi, con pesanti ripercussioni sui ricavi delle aziende del comparto turistico e, conseguentemente, sui lavoratori del settore. Mettendo in luce i mali endemici del settore, sempre più precario e mal retribuito.
Una voragine senza fine accompagna la caduta del turismo organizzato, nella drammatica situazione economica e sociale del nostro Paese colpito dalle devastanti conseguenze della pandemia da coronavirus.
Accanto a quello gravissimo dei decessi, l’altro drammatico bilancio del Covid-19 riguarda certamente il mondo del lavoro. L’emergenza sanitaria che sin dall’inizio della pandemia ha quasi del tutto azzerato gli spostamenti per lavoro, vacanza o altri motivi ha avuto pesanti ripercussioni sui ricavi delle aziende del comparto turistico e, conseguentemente, sui lavoratori dell’intero settore. Forte stagionalità, bassi salari e molteplici forme di irregolarità contrattuale sono i mali endemici di tale comparto e l’attuale fase ha ulteriormente messo in luce tali criticità, portando allo scoperto le condizioni di un lavoro sempre più precario e mal retribuito. Durante il lungo ciclo di riforme del mercato del lavoro che ebbe inizio nel 1997 (Pacchetto Treu 1997, Riforma Biagi 2001, Legge Fornero 2012, Jobs Act 2014), furono introdotte nuove forme contrattuali tese a favorire la flessibilità del lavoro ed aumentare l’occupazione. Da allora, si è certamente assistito a una iniziale riduzione dei tassi di disoccupazione e simultanea crescita dell’occupazione, ma al maggior numero di assunzioni ha fatto seguito una sempre minore stabilità delle stesse, con conseguente crescita esponenziale delle diverse forme di precariato.
Sistemicamente il turismo impone forti tassi di turnover della forza lavoro a causa delle sue peculiari caratteristiche produttive. Alta intensità di lavoro in determinate stagioni, saltuarietà dell’impiego, bassi salari, condizioni di lavoro aggravate dagli orari e dai turni antisociali, concentrazione territoriale, fanno sì che il lavoro nel turismo sia un’occupazione da sempre classificata come povera e precaria. Tale contesto, già critico, è stato ulteriormente esasperato dai lunghi mesi di fermo dovuti all’emergenza sanitaria, che hanno determinato la crescita delle tante forme di lavoro irregolare, confermando che l’instabilità contrattuale rimane la caratteristica principale di un comparto in cui più della metà degli impiegati non ha un posto di lavoro stabile. Ciò a causa di quelle tipologie contrattuali, particolarmente utilizzate nel settore turistico, che nascondono la minor ‘qualità’ dei rapporti di lavoro.
I contratti maggiormente utilizzati nel settore sono i soliti noti. Il contratto a chiamata, denominato anche contratto di lavoro intermittente, con il quale un lavoratore, con meno di 24 anni o con oltre 55 anni di età, si mette a disposizione di un datore di lavoro per prestazioni lavorative discontinue (appunto intermittenti), con la possibilità di svolgere la prestazione in determinati giorni della settimana, del mese o dell’anno. Tale tipologia contrattuale, introdotta nel 2003 ad opera della c.d. Legge Biagi (D.lgs n.276/2003), è attualmente disciplinata dall’articolo 13 del D.Lgs 81/2015, il quale sostanzialmente mantiene la linea della precedente disciplina normativa in materia (D.Lgs n.276/2003, D.L. 112/2008; L. 92/2012). Il lavoro a chiamata nasce proprio per fronteggiare esigenze discontinue di produzione imposte dal mercato ed è utilizzato con particolare frequenza dagli imprenditori operanti nel Turismo, schiavi del bisogno altalenante di manodopera. Si tratta tuttavia di uno strumento contrattuale molto delicato, tanto che, per evitarne usi impropri, il D.Lgs 81/2015 ne limita l’utilizzo ad un massimo di 400 giornate lavorative in tre anni solari, disponendo che superati questi limiti il rapporto di lavoro cui quel contratto si riferisce, si trasforma – in maniera automatica – in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato.
Vi è poi il contratto interinale (introdotto dalla Legge Treu del 24 giugno 1997, n.196) che permette ad un’impresa di stipulare un contratto di fornitura di manodopera con agenzie specializzate, in grado di fornire per il periodo necessario le professionalità richieste. Il lavoratore dipende giuridicamente dalle aziende fornitrici, da queste viene retribuito, ma funzionalmente presta il suo lavoro presso altre aziende che necessitano della sua professionalità, seppur in periodo di tempo limitato. Essendo un contratto di fornitura di lavoro temporaneo, quando rinnovato più di una volta ha rappresentato per le imprese turistiche un valido pretesto per mascherare una posizione lavorativa subordinata e legata a un fabbisogno non di carattere temporaneo ma stabile. Successivamente, con il D. Lgs. del 24 ottobre 2003, n. 276, è stato abolito il contratto di lavoro interinale ed è stata introdotta la somministrazione di lavoro, sia a tempo determinato che indeterminato (quest’ultimo abrogato dalla legge n. 247/2007). Il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato con il consenso del lavoratore, espresso con atto scritto. Proroga frequentemente accettata dal lavoratore che, in quanto precario, è costantemente sottoposto al ricatto di sconfinare nella disoccupazione.
Il contratto di lavoro più diffuso nel settore turistico rimane il contratto a tempo determinato, ossia quel contratto di lavoro subordinato con durata predeterminata, mediante l’apposizione di un termine di scadenza non superiore a 12 mesi (o 24 a determinate condizioni), come previsto dal D.L. n. 87/2018 (c.d. Decreto Dignità). Qualora tale limite sia superato, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. In relazione al contratto a tempo determinato – sottoposto ad una serie senza fine di modifiche normative dalla legge 230/62 all’attualità – vanno considerate le modifiche legislative intervenute nella fase dell’emergenza sanitaria. In particolare il D.L. 41/2021 (c.d. Decreto Sostegni) ha stabilito che fino al 31 dicembre 2021, in deroga all’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2015, ferma restando la durata massima complessiva di 24 mesi, è possibile rinnovare o prorogare per un periodo massimo di 12 mesi e per una sola volta i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, anche in assenza delle condizioni di cui all’art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015. Inoltre, a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. 73/2021 (c.d. Decreto Sostegni bis) fino al 30 settembre 2022, la durata del contratto può essere superiore a 12 mesi e non eccedente i 24 mesi anche in presenza di specifiche esigenze previste dai contratti collettivi. Con il Sostegni bis si finisce praticamente per creare una nuova fattispecie: in altre parole per le aziende, sempre sulla base di contratti collettivi o aziendali, è adesso possibile ricorrere al lavoro precario stipulando fin dal principio un contratto di durata superiore a 12 mesi.
Gli effetti di tale intervento normativo condurranno, quasi certamente, ad una ulteriore crescita dei contratti precari che nell’anno corrente, rispetto ai dati diramati dall’ISTAT ad inizio pandemia (aprile 2020), sono già cresciuti di 380mila unità, ad ulteriore conferma di come il mercato del lavoro si stia riorganizzando in direzione di una sempre più irraggiungibile stabilità.
La forma più rappresentativa del precariato del turismo è rappresentata dal contratto c.d. extra, ossia un contratto di lavoro a termine di durata giornaliera, frequentemente usato nel comparto del turismo ed in particolare nel settore alberghiero. Con la definizione di “lavoratori extra” si individua quel personale per il quale è consentita l’assunzione diretta nei casi di banqueting o nell’ipotesi in cui non sia possibile sopperire con il normale organico, quali meeting, convegni, fiere, congressi, manifestazioni, presenze straordinarie e non prevedibili di gruppi, nonché per eventi similari. Il personale extra può lavorare regolarmente per un massimo di 3 giorni consecutivi, con indubbio vantaggio per aziende sottoposte a flussi discontinui di clientela. La fonte di regolazione primaria dell’istituto è oggi costituita dall’articolo 29 del D.Lgs n. 81/2015, (c.d. Jobs Act), il quale lo esclude dalla disciplina del contratto a tempo determinato, attribuendo alla contrattazione collettiva il compito di individuare i casi in cui è ammesso il ricorso al lavoro extra.
E se nell’intenzione del legislatore l’istituto del lavoro extra avrebbe dovuto porre un freno a pratiche diffuse di lavoro irregolare, consentendo di soddisfare le particolari esigenze di taluni settori di regolarizzare rapporti brevi e discontinui altrimenti destinati a rimanere nel sommerso, in realtà anche il lavoro extra non è rimasto esente da frequenti abusi da parte delle aziende utilizzatrici, con numerosissimi casi posti al vaglio del Giudice del Lavoro. Ed infatti, pur essendo il lavoro extra diretto a facilitare particolari esigenze organizzative delle aziende turistiche operanti in una realtà produttiva non omogenea caratterizzata dall’alternanza di periodi di grossi flussi di reddito (c.d. alta stagione) e periodi di scarso profitto (c.d. bassa stagione), non è inusuale che tale tipologia venga utilizzata illegittimamente per sopperire ad esigenze di carenza di organico o semplicemente per utilizzare personale a basso costo senza incrementare l’organico con assunzioni di personale fisso. Ecco perché, onde evitare ogni utilizzazione illecita, il ricorso a tale istituto è consentito unicamente per l’esecuzione di speciali servizi, in conformità a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, essendo indispensabile la sussistenza di “uno specifico rapporto causale tra assunzione ed esecuzione del servizio”, principio da sempre affermato dalla Suprema Corte. Ciò significa che il ricorso al lavoro “extra” non è totalmente libero e per l’azienda utilizzatrice non sarà sufficiente fornire la mera prova della presenza in albergo di un servizio speciale, essendo necessario provare “il collegamento dell’assunzione con la particolare esigenza”. In caso contrario, il contratto va convertito in rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dall’origine.
Oltre alle diverse tipologie contrattuali appena descritte vi sono poi, anche nel settore turistico, i c.d. atipici, cioè i ‘finti’ lavoratori autonomi ma in realtà veri e propri lavoratori subordinati. Basti pensare che nel periodo del boom dei voucher (2017-2018) il turismo era il primo settore per utilizzo di queste forme contrattuali, mentre lo scorso anno, secondo i dati forniti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, era il settore “più nero”, contando il 46% delle violazioni totali sul territorio nazionale.
È evidente che i primi a subire l’effetto catastrofico del Coronavirus sono stati – e continueranno ad essere – proprio i lavoratori più “flessibili”, formalizzati con le tipologie contrattuali descritte. Ed infatti l’effetto esercitato dagli interventi governativi sui licenziamenti e il massiccio ricorso alla cassa integrazione hanno agito, sostanzialmente, sulla componente degli occupati con contratti di lavoro permanente, mentre per i dipendenti a tempo determinato in gran parte dei casi il contratto è arrivato, o arriverà, alla sua fine naturale senza che venisse rinnovato o tutt’al più prorogato per altri 12 mesi (e per una sola volta), come previsto dalla normativa speciale innanzi menzionata (c.d. Decreto Sostegni).
La metafora militare di un “esercito industriale di riserva”, utilizzata da Marx per indicare il fenomeno della disoccupazione in quanto prodotto dell’economia capitalistica, è quella che oggi meglio risponde ai fenomeni descritti, ai quali si aggiungono anche le esternalizzazioni selvagge, l’utilizzo di cooperative di comodo frequenti nel settore delle pulizie o facchinaggio (quasi completamente affidati a ditte esterne, soprattutto nelle grosse catene alberghiere), i lavoratori a prestito (cosiddetto leasing, ossia “caporalato” più o meno legale), la reintroduzione del cottimo (come nel caso delle cameriere ai piani), la diminuzione dei tempi di lavorazione, la tendenza diffusa a lavorare di più con meno unità, il lavoro nero e grigio, la diminuzione od anche eliminazione del riposo giornaliero e settimanale. Questi sono solo alcuni degli espedienti con cui molte imprese turistiche, non ancora risollevatesi, cercano di recuperare parte della remuneratività persa a causa del fermo imposto dalle prime misure restrittive post pandemia e dal conseguente calo dei ricavi.
In tale ottica l’emergenza sanitaria può diventare un facile pretesto per alcuni datori di lavoro che, già in difficoltà, possono facilmente permettersi di tagliare i dipendenti di troppo. La realizzazione di tale obiettivo era già iniziata con condotte atte a vanificare il c.d. blocco dei licenziamenti. Finché vigeva per tutti tale misura restrittiva, numerosi lavoratori sono stati comunque licenziati da diverse aziende del settore, che hanno aggirato il divieto con la formula della “cessazione d’attività” o della “messa in liquidazione”. Diverse società di servizi hanno quindi di fatto cessato l’attività entrando in liquidazione, potendo in tal modo liberamente licenziare. Gli ex dipendenti sono stati poi riassorbiti da altre imprese, sovente del medesimo “Gruppo”, con condizioni contrattuali peggiori accettate dal lavoratore esclusivamente per salvare il proprio posto, con l’amara consapevolezza di spingere, sé e la propria famiglia, verso la povertà.
Sono da poco arrivate le ultime tranche di integrazioni salariali covid, anche se non per tutti. Lo prevede il Decreto fisco e lavoro collegato alla manovra (Dl 146/2021 in vigore dallo scorso 22.10.21), che introduce un nuovo rinnovo settoriale degli ammortizzatori, per sostenere le realtà ancora in crisi. A poter beneficiare della nuova proroga (oltre alle aziende appartenenti al settore tessile e di confezionamento articoli abbigliamento e pelle) sono i datori di lavoro che rientrano nelle tutele del fondo di integrazione salariale (Fis), dei trattamenti di solidarietà bilaterali e dei trattamenti di cassa integrazione in deroga. Questi datori di lavoro che in base all’art. 8 del Dl 41/21 avevano già la possibilità di accedere – nel periodo dal 1.04.21 al 31.12.21 – ai rispettivi trattamenti per un massimo di 28 settimane complessive, ora possono incrementare l’ammortizzatore per altre 13 settimane a decorrere dal 1.10.21 (con effetto retroattivo quindi) sino al 31.12.21. Il presupposto è che le 28 settimane precedentemente concesse siano state interamente autorizzate. Come avvenuto sin ora, la concessione dei trattamenti è subordinata al divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la durata di fruizione dei medesimi.
Cosa succederà nel settore turismo quando questi ultimi sussidi saranno terminati e sarà possibile licenziare ”liberamente”? Quanti riusciranno a salvare il proprio posto di lavoro, considerando la già abnorme presenza di lavoratori con contratti di durata brevi (anche giornaliera c.d. chiamata extra) o intermittenti? Difficile trovare una risposta a tali interrogativi se si considera, ad esempio, che il settore alberghiero registrava a luglio di quest’anno una flessione delle presenze del 52%, con inevitabile ripercussione sui ricavi. Ma questo è un dato, che nonostante tutto, segna una piccola ripresa rispetto all’anno precedente.
Dagli ultimi dati Istat emerge che il mercato del lavoro a settembre di quest’anno è tornato a registrare segnali di miglioramento, dopo i cali registrati a luglio scorso, con un incremento degli occupati e una riduzione di inattivi. Ma ciò che conta, per la riflessione che ci occupa, è che la ripresa è trainata esclusivamente dagli occupati a termine, che sono saliti di 97mila unità rispetto all’anno precedente. Ed inoltre, nonostante i segnali di ripresa, il flusso del turismo organizzato non riprenderà ai livelli precedenti il Covid-19, ma continuerà con una lenta crescita graduale. Ed è proprio questa la fase più complessa per le aziende del settore e il momento più rischioso per i lavoratori che ne fanno parte. Sembra infatti che le imprese turistiche non abbiano ancora ripreso a compiere investimenti di medio e lungo periodo (le assunzioni a tempo indeterminato rientrano fra questi) ed a peggiorare l’andamento dell’occupazione del settore si è aggiunta la fine del blocco dei licenziamenti del giugno scorso che ha portato già molte aziende in difficoltà a mettere fine a numerosi rapporti di lavoro. Analogo fenomeno si verificherà, con ogni probabilità, il prossimo 31 dicembre con protagoniste le aziende per le quali vige ancora il blocco dei licenziamenti e per le quali è innegabile che la pandemia ne abbia stravolto la redditività.
Quanto osservato non può comunque giustificare un uso indiscriminato, o a volte pretestuoso, dei licenziamenti, in quanto ogni situazione di estromissione dal lavoro deve essere valutata attentamente, al fine di comprendere se il licenziamento sia giustificato o meno. Va tenuto a mente che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento non ricorre qualora la ricerca dell’incremento di produttività si realizzi soltanto attraverso una contrazione del costo del lavoro, non accompagnata da un mutamento nell’organizzazione tecnico-produttiva. L’ingiusta perdita del posto di lavoro, o anche il mancato rinnovo contrattuale, comporta gravissime conseguenze per il lavoratore disoccupato, non solo dal lato economico ma anche da quello sociale, familiare e psicologico, provocando un senso di smarrimento e frustrazione, soprattutto in un periodo di forte crisi economica che non consente una facile ricollocazione nel mondo del lavoro.
Il rischio vero è quello di assistere ad una ancor più pesante crescita della precarizzazione, volta a sconfessare ulteriormente la condizione del lavoratore. I disoccupati e i lavoratori temporanei costituiscono infatti una riserva di manodopera sempre a disposizione delle imprese. Un “esercito industriale di riserva” di cui fa parte ogni lavoratore “durante il periodo in cui è occupato a metà o non è occupato affatto” ed in cui è disposto, pur di lavorare, ad accettare forme di lavoro meno garantito. Al contrario, il lavoro è un diritto costituzionale di cui tutti hanno bisogno e che va garantito di più, specialmente di fronte alla drammatica situazione sociale ed economica derivante dal COVID-19. L’auspicio è che tale bisogno possa essere soddisfatto tramite un’autentica opera di riforma dell’ordinamento giuridico del lavoro, che favorisca la ripresa del sistema produttivo e che possa restituire la perduta dignità al lavoratore. Una riforma che non può non porsi come obiettivo primario la creazione di nuovi strumenti di contrasto dell’illegalità, idonei a porre fine allo sfruttamento e all’isolamento sociale di questo esercito di precari in cerca di stabilità.
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