Il diritto del lavoro in Italia si trova all’ennesimo bivio della sua storia: accettare il rischio di vivere in un’illegale “zona rossa”, oppure tentare di isolare il virus del lavoro irregolare, ricercando nuovi strumenti di contrasto.
E se partissimo col potenziare quelli già a disposizione?
La nota pandemia da Covid-19 ha risvegliato la necessità di riordinare in ciascuno di noi le rispettive priorità, mettendo a nudo le fragilità di un Paese che ha dovuto, in brevissimo tempo, fare scelte drastiche in materia di legalità, lavoro e diritto regolatore.
E però, i dati che emergono a due anni dallo scoppio della pandemia non sono confortanti. Se è vero infatti che il lavoro, nella sua accezione costituzionale, ha riscoperto di avere un ruolo centrale all’interno del sistema economico del Paese, è altrettanto pacifico come la presenza del Covid-19, abbia accentuato ancor di più, in tale ambito, la dicotomia tra legalità e illegalità, trovando quest’ultima nella variante pandemica un humus ideale per poter proliferare alla luce del sole, quasi senza preoccuparsi di essere vista. Questo quanto meno è ciò che emerge dalla presa visione dei dati Istat e dall’incremento del numero di domande di accertamento presentate dinanzi ai plurimi Tribunali di merito in Italia in quest’ultimo biennio.
Il rischio, dunque, è quello di assistere con coscienza ad una legalizzazione dell’illecito, volta a disconoscere la condizione di lavoratore.
In altri termini il diritto del lavoro, a quasi due anni dall’avvento della pandemia, si trova dinanzi all’ennesimo bivio della sua storia: decidere tra l’accettazione del rischio di una legalizzazione dell’illecito e il voler (rectius: dover) risorgere dalle proprie ceneri, ricercando nuovi strumenti di contrasto all’illegalità dei rapporti di lavoro, magari partendo dal rafforzare quelli già a sua disposizione.
Il caso. G. è una ragazza che ha lavorato senza alcuna regolarizzazione previdenziale, fiscale e assicurativa all’interno di un piccolo esercizio commerciale, con mansioni di sarta, sin dal maggio 2018. A seguito del colloquio iniziale, il suo datore di lavoro le prometteva la regolarizzazione del rapporto e però, ogni volta che la lavoratrice chiedeva la formalizzazione dello stesso con la sottoscrizione di un contratto, riceveva sempre la stessa risposta: «più tardi, non ora». A marzo 2020 l’Italia è travolta da una serie di restrizioni che la portano a essere rinchiusa nel lockdown e G. non è più chiamata a lavorare, dal momento che la sartoria (come tantissime altre imprese) è a sua volta costretta a chiudere.
Sennonché, mentre le altre colleghe di G. – tutte regolarmente segnalate al centro per l’impiego con contratti di lavoro subordinato – vengono collocate in Cassa Integrazione Guadagni-Covid 19, G. non può beneficiare dell’ammortizzatore sociale perché, per lo Stato, lei è una “lavoratrice invisibile”. Quindi, in quanto tale, G. ha dovuto affrontare in totale abbandono la criticità del momento.
Numeri alla mano. G. è solo una delle tantissime lavoratrici (e lavoratori) che svolgono la propria attività senza regolarizzazione alcuna. Che il lavoro sommerso, nel nostro Paese, fosse un “virus” che già aveva attecchito, è circostanza sin troppo pacifica. Come ci ricorda il report Istat del 15 ottobre 2019 (uno tra i dati più aggiornati prima dell’avvento della pandemia) l’economia che sfugge all’osservazione statistica diretta vale circa 211 miliardi di euro, il 12,1% del Pil. L’economia sommersa (ovvero le attività che sono scientemente tenute nascoste agli occhi del fisco) è pari a circa 192 miliardi. Così la componente dell’economia sommersa ammonta a poco più di 183 miliardi di euro, mentre quella delle attività illegali «supera i 19 miliardi mentre sono 3 milioni 586 mila le unità di lavoro irregolari nel 2019».
Tali numeri si sono consolidati proprio nel corso del biennio successivo allo scoppio della pandemia, come ci riporta un focus di Censis-Confcooperative che analizza i dati Istat e Svimez su occupazione e reddito, dalla cui lettura si comprende come, per effetto dovuto alla crisi da Covid, si stima che siano 2,1 milioni in più le famiglie italiane a rischio povertà assoluta; dalla visione degli stessi dati si evince come sono 2,1 milioni le famiglie con almeno un componente che lavora in maniera non regolare e di queste un milione e 59mila vive esclusivamente di lavoro irregolare. «Nel totale dei lavoratori, 2,9 milioni sono working poor – con un reddito inferiore ai 9 euro l’ora – mentre 3,3 milioni sono irregolari».
Per altro, il dato risulta essere ancora più allarmante se si pensa come questi numeri siano ancora provvisori, stante la difficoltà di censire causata dalle restrizioni di movimento e lavoro affrontate in questo biennio, ma che, al contempo, lasciano davvero riflettere sulle difficoltà cui siamo dinanzi.
Ecco dunque come, a circa due anni dallo scoppio della pandemia, il nostro Paese si ritrova a constatare un aumento esponenziale di casi di “lavoro nero”, la cui tutela è risultata essere del tutto inesistente, anzi, non può che definirsi come una «tutela che muove dalla negazione della condizione di lavoratore».
La variante del virus. A chiusura del cerchio, poi, si deve tener conto di quella che sta diventando una prassi all’interno delle aziende che – pur avendo regolarmente formulato richiesta di Cassa Integrazione Guadagni Covid-19 – approfittano dell’ammortizzatore sociale per erogare la retribuzione mensile ai propri dipendenti ma, in frode alla legge, al contempo fruiscono delle prestazioni lavorative degli stessi lavoratori, portando avanti così il lavoro nel proprio esercizio (ottenendo utili) con evidente danno economico in capo alla forza lavoro.
I possibili “vaccini”. È chiaro che la piaga del lavoro sommerso non potrà sanarsi nel medio breve periodo, ma ciò non toglie che alcuni strumenti dovranno giocoforza essere utilizzati, inizialmente al fine di porre un freno al dilagare del fenomeno affrontato. Solo una volta interrotta la crescita esponenziale dello stesso si potrà pensare di intraprendere una fase di regressione, il tutto cercando di rafforzare misure già in vigore, al fine di rendere più credibile anche la loro funzione deflattiva.
Senza dubbio, il primo strumento a disposizione del lavoratore è quello di denunzia, e ciò tanto presso gli Uffici di ispettorato del lavoro ma ancor di più mediante l’azione giudiziale, al fine di sentir accertare e dichiarare, da un giudice monocratico del lavoro, la sussistenza della natura subordinata del rapporto, fin qui privo di regolarizzazione fiscale, assistenziale e contributiva.
In base alle sentenze pubblicate dai Tribunali di merito e dalle Corti territoriali, uniformatesi alle pronunce emesse dalla Suprema Corte nella sua funzione nomofilattica, emerge come il dato inequivocabile che permetterà di accertare la subordinazione di un rapporto di lavoro sommerso è la sussistenza dell’eterodirezione, della continuità della prestazione resa e della piena gestione da parte del datore di lavoro della funzione tempo in base alla quale poter affidarsi.
Per di più, alla luce del contesto storico appena vissuto e strettamente connesso alle misure restrittive che la pandemia ci ha obbligato ad assumere, un’ulteriore richiesta da presentare dinanzi ad un Tribunale del lavoro potrà essere quella di accertare la sussistenza, in alternativa alla mancata retribuzione, di un risarcimento del danno, stante la mancata possibilità di fruire degli ammortizzatori sociali (FIS, CIG da Covid-19). Ciò dal momento che, non essendo il lavoratore regolarizzato, lo stesso ha dovuto affrontare il periodo di pandemia senza alcun sostegno previsto dallo Stato, a causa del venir meno della formalizzazione del sinallagma contrattuale e, giocoforza, in caso di inadempienza del versamento della retribuzione ad opera del datore di lavoro.
Come sopra accennato, un altro strumento necessario al fine di fermare il ‘virus del lavoro sommerso’ è legato agli Ispettorati del lavoro. Sennonché, sotto tale aspetto, i dati non sono confortanti. Basti pensare che il numero di ispettori del lavoro, ad oggi, è sensibilmente sotto organico rispetto a quelle che sono le denunce presentate dai lavoratori per i più disparati motivi (lavoro non regolarizzato, sicurezza sul posto in violazione del d. lgs. 81/08, casi di straining e stress da lavoro correlato, ecc.).
Analizzando i dati, emerge come siano troppo poche le sedi dislocate su tutto il territorio nazionale (solo settantaquattro e molte in fase di accorpamento tra loro) se si pensa non solo alla mole di controlli che l’ispettorato stesso deve svolgere, assumendo tutte le funzioni di vigilanza sul lavoro, ma anche in considerazione dell’incremento dei controlli che tali agenzie dovrebbero effettuare e che, scarseggiando numeri e risorse, non vengono effettuati.La necessità è quella di incrementare mediante incentivi da parte dello Stato l’attività di vigilanza, semplificandola, andando a creare una catena di coordinamento tra i soggetti competenti (ispettori del lavoro, agenti di polizia, carabinieri).
A tal proposito, qualcosa di interessante, da quanto si apprende, si legge nella bozza del decreto fiscale sulla sicurezza sul lavoro, in relazione allo sforzo di contrastare la piaga del lavoro “nero”. Sembrerebbe che vi sia l’intenzione di estendere le competenze di coordinamento all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la previsione di aumentare l’organico assumendo 1.024 ispettori del lavoro e stanziando oltre 3.7 milioni. Tale cifra dovrebbe essere destinata all’acquisizione di tecnologie per dotare gli ispettori di strumenti informatici utili per assolvere la funzione di sorveglianza.
Ecco dunque, una volta rinnovata ed oliata la macchina di controllo e accertamento dell’illecito, che anche le sanzioni fiscali e amministrative già in vigore, o sul punto di entrare in vigore, avranno una valenza deflattiva più credibile.
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