Se si vuole mettere fine allo sfruttamento e alla marginalità sociale ed esistenziale in cui milioni di cittadini sono relegati, non si può prescindere da un’articolazione di diritti e garanzie fondamentali per la realizzazione della dignità umana, in linea con i principi della Costituzione.
“Ma davvero lavori 365 giorni l’anno e sei felice?”
(da un famoso spot pubblicitario)
All’interno del dibattito politico-sindacale, nonché tra i giuslavoristi che hanno fatto una scelta “partigiana” garantendo le proprie competenze, impegno e passione esclusivamente verso le ragioni delle lavoratrici e dei lavoratori, quando si analizza la crisi verticale del diritto del lavoro e sindacale (e di riflesso il consolidamento del lavoro precario, povero e intermittente come paradigma della fase politica e sociale che stiamo attraversando), spesso si guarda indietro, a quell’epoca dell’oro che sono stati i “gloriosi” trenta. Indubbiamente l’arco temporale che va dal secondo dopoguerra sino agli accordi di Bretton Woods è stato un momento storico di stabilità, benessere economico e tutele dei diritti dentro e fuori il rapporto di lavoro. Tuttavia, possiamo considerare tale arco una parentesi. Il resto della storia del ‘900 ci racconta, infatti, che il lavoro è sempre stato povero e precario: sino all’introduzione della legge 604 del 1966 il rapporto di lavoro era liberamente rescindibile (c.d. recesso ad nutum) e il diritto di sciopero è stato riconosciuto solo con la Costituzione; ciononostante nel secondo dopoguerra molti lavoratori e lavoratrici, proprio nello svolgersi dell’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, hanno spesso trovato la morte; ed ancora, lo Statuto dei lavoratori è stato approvato solo nel 1970 per essere poi smantellato a partire dal 2012. Il resto, dall’introduzione del c.d. Jobs Act, è storia recente e ci parla di una (quasi) definitiva resa delle ragioni del diritto dei lavoratori e delle lavoratrici, rispetto al dogma del mercato e del profitto.
Quindi, la regola è la precarietà, l’eccezione è la stabilità.
In tal senso possiamo considerare fallito – o quantomeno lontano – quel sistema di garanzie e tutele previste all’interno della costituzione economica (in particolare mettendo in relazione gli artt. 1, 4, 36, 38, 39, 41 Cost.), fondato sul principio lavoristico che punta alla piena occupazione e a una retribuzione adeguata che garantisca un’esistenza libera e dignitosa. Fallito per ragioni non solo contingenti, ma anche strutturali e profonde, come ad esempio la trasformazione della produzione industriale, del mercato del lavoro, dei processi di tecnologizzazione, in altri termini a causa di tutte quelle operazioni del capitale che si fondano sui meccanismi estrattivi, logisti e finanziari.
Dunque, a parere di chi scrive – anche alla luce del proprio posizionamento biografico e anagrafico, risulta in parte oscura l’enfasi con cui spesso, nei dibattiti tra “addetti ai lavori”, per rinnovare una politica del diritto del lavoro all’altezza delle trasformazioni che stiamo vivendo, si guarda tendenzialmente indietro, cercando di restaurare quel sistema di diritti, di relazioni industriali e sindacali che hanno caratterizzato il periodo che va dal secondo dopoguerra alla fine degli anni 80’. Le trasformazioni strutturali del mercato del lavoro rendono molto complicata la riproposizione in toto di quel sistema di diritti e garanzie.
Nel nostro paese una buona parte degli occupati guadagna oggi meno che in passato e vive in una situazione di estrema precarietà. Ad essere ancora più precisi: secondo le stime del CNEL il c.d. lavoro povero a partire dal 2015 ha interessato oltre 3 milioni di individui e pone circa 2,2 milioni di famiglie in condizioni di rischio povertà, nonostante almeno un componente del nucleo risulti occupato. Secondo l’Istat ad inizio 2021 il tasso di disoccupazione generale era pari al 10,2%, mentre la disoccupazione giovanile (15-24 anni) era pari al 31,6%.
Inoltre, oggi il salario medio italiano è di 12.400 euro più basso di quello tedesco. L’Italia è tra i pochissimi paesi in Europa in cui i salari medi nel 2019 sono inferiori a quelli del 2007 e dove più di 5 milioni di lavoratori e lavoratrici guadagnano meno di 10.000 euro annui, ponendosi così sotto la soglia di povertà, seppur avendo un impiego.
Alla luce di questi pochi ma significativi e allarmanti dati, il dibattito politico si sta concentrando sulla colpevolizzazione delle nuove generazioni che non accettano lavoretti – la discussione attorno al settore della ristorazione è emblematica – ma vivono “a scrocco” sulle spalle dello Stato mediante dispositivi di welfare come il reddito di cittadinanza; quest’ultimo, non a caso, in mezzo al fuoco di fila bipartisan delle forze politiche che ne richiedono l’abolizione, o quantomeno una radicale trasformazione in senso maggiormente workfaristico e punitivo.
• • •
Il secondo comma dell’art. 3 della costituzione recita: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. E allora, alla luce di quanto stabilito dal citato articolo 3 Cost. e alla luce della trasformazione del mercato del lavoro (sempre più precario) è possibile immaginare uno ius existentiae, da intendersi come diritto ad un’esistenza libera e dignitosa per tutte e tutti e che possa rimettere al centro l’idea di un lavoro degno, che non mortifichi le esistenze di milioni di esseri umani?
Per essere ancora più espliciti, come far sì che tale diritto vada oltre chi, ad oggi, ha un lavoro retribuito in maniera sufficiente a garantire a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa, ma riguardi anche coloro che hanno un lavoro non retribuito in maniera sufficiente o addirittura quanti un lavoro non ce l’hanno?
Essendo senza dubbio complicato rispondere in maniera esaustiva a tali quesiti, in questa sede ci si limiterà a proporre alcune idee che ragionino attorno alla necessità di garantire i diritti a una retribuzione equa e a un reddito di esistenza (e dunque non di sussistenza) che vada oltre la soddisfazione delle esigenze vitali minime. Ma andiamo con ordine.
• • •
Il deputato Aladino Bibolotti propose che, al primo comma dell’art. 32, poi divenuto art. 36, fosse aggiunta la seguente previsione: “Il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge” e così argomentò a sostegno della proposta: “a me pare (…) che questo inserimento nell’articolo 32 conferisca all’articolo stesso una consistenza ed una concretezza tali da tranquillizzare le famiglie dei lavoratori, nel senso che, compiuto il loro dovere sociale di partecipare al processo della produzione, essi non potranno essere mai più oggetto di quello sfruttamento inumano e senza limiti che oggi, in determinate circostanze e in determinati rapporti di forze, sarebbe ancora giuridicamente possibile”.
L’emendamento non fu approvato. I Costituenti scelsero di non prendere posizione sulle modalità attraverso cui assicurare la giusta retribuzione. Non fu introdotta una riserva di legge sul salario minimo, che avrebbe affidato al legislatore il compito di stabilire la soglia di proporzionalità e sufficienza; non fu neanche stabilita una riserva in materia retributiva a favore della contrattazione collettiva. Quindi, nel contesto di mancata attuazione dell’art.39, seconda parte, Cost., la giurisprudenza ha utilizzato come parametro di riferimento della giusta retribuzione, non vincolante per il giudice, le tariffe salariali dei contratti collettivi della categoria, ove non direttamente applicabili. In base a una presunzione iuris tantum, i giudici hanno considerato i minimi retributivi dei contratti collettivi nazionali di lavoro in grado di assicurare corrispondenza al precetto costituzionale. In tal modo la giurisprudenza ha svolto un’importante funzione di sostegno del ruolo della contrattazione collettiva nell’individuazione della giusta retribuzione.
Segnatamente, si è detto che la giurisprudenza italiana sull’art. 36 Cost. “ha rappresentato un essenziale elemento di compensazione rispetto all’astensionismo del legislatore: astensionismo tradottosi nell’assenza sia di una legislazione sul salario minimo che di un procedimento legale attuativo dell’art. 39, seconda parte, Cost. idoneo ad assicurare alla contrattazione collettiva di categoria l’efficacia soggettiva erga omnes”. In questo modo, “si è prodotto il notevole effetto di assicurare una tutela di matrice collettiva attraverso un tipico rimedio individuale, quale il ricorso giurisdizionale, al quale qualsiasi dipendente ha la possibilità di accedere invocando un parametro oggettivo, di agevole prova nel processo qual è, per l’appunto, la parte economica del Ccnl di categoria”.
Dunque, il rimedio giurisprudenziale ha rinviato per un lungo periodo la necessità di un intervento legislativo sui minimi salariali, ciò anche alla luce di un continuo riferimento in via parametrica ai CCNL sottoscritti dai sindacati che si presumono maggiormente rappresentativi e che, per molti decenni, tramite la propria azione sindacale unitaria, hanno esercitato una reale funzione di garanzia nell’esercizio delle prerogative sindacali. Tuttavia, si è assistito a una frammentazione della contrattazione collettiva, alla moltiplicazione dei contratti collettivi sottoscritti per le stesse categorie, alla deregolarizzazione e aziendalizzazione della contrattazione, nonché alla diffusione di contratti pirata. Dunque il parametro del contratto collettivo nazionale non rappresenta più, in ogni caso, una garanzia di una retribuzione adeguata. Infatti, in alcune pronunce di merito, il giudice del lavoro si è trovato più volte a discostarsi dalle tariffe previste nei CCNL. Sul punto, la Corte di Appello di Milano ha affermato il principio secondo cui una retribuzione oraria lorda inferiore a 5 euro non rispetta il principio di proporzionalità e di sufficienza a condurre un’esistenza libera e dignitosa ai sensi dell’art. 36, Costituzione. Tale parametro viola la Costituzione, anche se è contenuto in un contratto collettivo. Il giudice può quindi discostarsi da quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, a condizione che la decisione sia migliorativa e adeguatamente motivata; e ancora, di recente, la Corte di Cassazione è intervenuta in materia di garanzia dei minimi di retribuzione per i lavoratori dipendenti dalle cooperative, ribadendo un principio già contenuto nella sentenza 51/2015 della Corte Costituzionale. In particolare, la Cassazione ha confermato che i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative non hanno efficacia erga omnes, ma che i minimi salariali in essi previsti costituiscono il riferimento per garantire la retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art 36 Cost. Pertanto, se i contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali non “comparativamente più rappresentative” rispettano o migliorano i richiamati minimi salariali, essi sono legittimi sotto il profilo applicativo. Dunque, il criterio selettivo in materia di contrattazione collettiva individuato nel sindacato “comparativamente più rappresentativo”, diventa così criterio-guida del trattamento economico complessivo e argine forte contro il dumping salariale generato dai “contratti-pirata”.
Da ultimo, sempre la Corte di Cassazione ha precisato che il giudice, “ove ritenga inadeguata la retribuzione corrisposta dall’azienda in base al contratto da essa applicato, può procedere al suo adeguamento facendo, riferimento a quella del contratto di categoria non direttamente applicabile, con la precisazione che nella domanda di pagamento di differenze retributive sulla base di un contratto collettivo che si riveli inapplicabile deve ritenersi implicita la richiesta di adeguamento ex art. 36 Cost.” .
Tuttavia, il c.d. “lavoro povero e impoverito” continua ad essere una delle più importanti questioni sociali del nostro tempo, e dunque si ritiene giusto che sia il legislatore – e non in via surrogatoria le Corti di merito e di legittimità – a porre in essere un’iniziativa che introduca per legge il salario minimo intercategoriale nel nostro ordinamento.
Da questo punto di vista, la proposta di legge n. 658 ha il merito di demandare la definizione del trattamento complessivo economico minimo al CCNL e, in questo modo, risponde alle caratteristiche di un intervento di sostegno alla contrattazione collettiva, non già sostitutivo di essa. Inoltre, la fissazione della soglia minima salariale a un livello non inferiore ai 9 euro avrebbe il merito di costringere tutto il sistema della contrattazione a riadeguarsi in funzione dei nuovi minimi, con un effetto positivo inevitabile verso tutta la scala salariale. Di converso, il riferimento ai CCNL sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative rischia di essere un importante limite, nonché un’occasione mancata per mettere in discussione il sistema della rappresentanza – che si basa sul principio presuntivo – cristallizzato all’interno del T.U. del 2014. Invece, affinché una misura di salario minimo orario sia effettivamente parametrata ai CCNL sottoscritti dalle Organizzazioni sindacali realmente rappresentative all’interno dei luoghi di lavoro, sarebbe necessario mettere in discussione le previsioni del T.U. del 2014, ripensare la rappresentanza e i criteri di misurazione della stessa, ponendo al centro del dibattito e dell’iniziativa legislativa il tema della misurazione del consenso e della effettiva rappresentanza, basata ad esempio sul voto diretto da parte dei lavoratori e delle lavoratrici delle delegazioni sindacali trattanti, nonché su quello delle RSU. In tal modo si potrebbe garantire a tutti l’esercizio democratico delle prerogative sindacali e i minimi salariali sarebbero realmente definiti dai CCNL sottoscritti dalle OO.SS. rappresentative.
• • •
Se sino ad ora ci siamo occupati di ciò che accade all’interno del rapporto di lavoro, appare interessante chiedersi: come garantire un’esistenza dignitosa a chi al momento non ha una occupazione, oppure cerca di sottrarsi da proposte di lavoro che prevedono paghe indegne e/o orari di lavoro fuori dai limiti prescritti dalla legislazione nazionale?
Da questo punto di vista, seppur io sia un convinto sostenitore del reddito di base, universale e incondizionato, è a mio avviso necessario partire dal provvedimento legislativo oggi esistente nel nostro ordinamento: il reddito di cittadinanza promosso dal M5S.
In primo luogo sembra opportuno riconoscere all’ex compagine di governo il merito di aver introdotto una effettiva misura reddituale, superando le resistenze ataviche delle altre componenti politiche, sia a destra che a sinistra, nonché quelle delle associazioni datoriali, in primis Confindustria. È innegabile che in questi “tempi pandemici” tale misura abbia svolto una funzione minima di scialuppa di salvataggio per milioni di persone; ciò non toglie che quest’ultima sia comunque una misura di natura assistenziale, condizionata, che si rivolge a una platea troppo ristretta di cittadine e cittadine, lasciando fuori (e dunque anche ai margini della partecipazione economica, politica e sociale nel nostro paese), ad esempio, tutta la popolazione migrante che vive nel nostro paese. Però, per essere più realisti del Re, in questa fase storica e politica, piuttosto che ignorare un provvedimento legislativo già esistente appare utile partire dalla possibilità di emendarlo, per trasformarlo da strumento assistenziale a diritto fondamentale.
In primo luogo, si potrebbe ragionare sulla possibilità di erogare alle persone che si trovino in condizione di debolezza economica e sociale, un reddito che consenta loro non la mera sussistenza materiale, ma un’esistenza piena anche sotto il profilo morale, culturale, sociale, politico.
Inoltre, tale misura potrebbe essere condizionata e selettiva rispetto al bisogno, rivolgendo i requisiti non a un lavoro in quanto tale, ma all’offerta di un lavoro congruo e rispettoso delle competenze e della formazione del lavoratore, in grado di garantire una paga degna e tutele sul posto di lavoro. Inoltre l’accesso al reddito potrebbe essere subordinato allo svolgimento di altre attività formative che presuppongono percorsi di studio e formazione, in linea con le aspirazioni del beneficiario. Ecco, una misura così immaginata sarebbe conforme al dettato costituzionale e all’idea di cittadinanza in essa inscritta.
Infatti, una lettura sistematica e integrata della costituzione economica con i principi fondamentali conduce a riconoscere come diritto universale l’aver garantita un’esistenza libera e dignitosa, corredato dal corrispondente dovere in capo alla Repubblica. Di tale diritto/dovere si puo dire che il “mantenimento sociale” dei soggetti privi di mezzi costituisca una condicio sine qua non, quel nucleo irriducibile che, se manca di tutela o viene aggredito, conduce irrimediabilmente alla violazione del diritto stesso. Questo principio è stato affermato in tempi non sospetti dalla Corte costituzionale, che ha affermato il “diritto a conseguire le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno” come “diritto fondamentale” “strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignita della persona umana”. Tuttavia, la dimensione strettamente economica non è sufficiente, ma funzionale alla realizzazione dell’individuo all’interno della vita sociale e politica del Paese.
Parafrasando un vecchio slogan: “ci vuole il pane, ma anche le rose”.
All’interno di un dibattito che sul tema è storicamente vivace sono i soggetti che subiscono gli effetti di determinate scelte politiche e provvedimenti legislativi a formulare una rivendicazione in grado di tenere insieme la dimensione della soddisfazione delle necessità vitali con quella complessiva del diritto a vivere una vita degna. A tal proposito una linea di lavoro interessante è rintracciabile nel concetto di reddito di autodeterminazione ideato dal movimento femminista Non Una Di Meno, elaborato nel proprio piano programmatico. Per reddito di autodeterminazione il movimento femminista intende una misura a tutela dell’indipendenza economica e dell’autodeterminazione delle donne, che permette ad esempio di veder riconosciuti come lavoro – dunque retribuito – i lavori riproduttivi e di cura. Una misura quindi che combatte l’indigenza e il lavoro sottopagato e non retribuito, non solo in quanto limite materiale alla soddisfazione dei bisogni primari di sussistenza, ma quale la minaccia più feroce all’indipendenza delle donne, essendo anche il limite maggiore alla partecipazione alla vita politica e sociale del paese: che sia attraverso lo studio, il lavoro o la partecipazione politica e sindacale ecc.
È necessario che istanze del genere possano permeare il dibattito istituzionale e di politica del diritto, per poter riconfigurare un sistema di garanzie e tutele aderenti ad una realtà sempre più complessa e stratificata, spesso distante e incompresa in ambito governativo, sia nazionale che europeo.
• • •
In questa fase storica, siamo dinnanzi ad una cesura epocale, la pandemia con i suoi risvolti sanitari, sociali e economici, ci sta consegnando un mondo in transizione, in cui la maggioranza della ricchezza prodotta è in possesso di poche migliaia di persone, a fronte di una erosione dei diritti di milioni di cittadine e cittadini.
Da questo punto di vista, l’articolato e complesso mondo del diritto del lavoro e sindacale, delle relazioni industriali, non fa differenza, si acuisce sempre di più una tensione volta a fare del lavoro una merce “alla mercé” delle componenti datoriali e padronali, piccole o grandi che siano.
Ormai da molti anni sembriamo trovarci all’interno di una circolarità a-temporale, in cui l’orologio della storia del lavoro, dopo l’acme in termini di diritti raggiunto con lo Statuto dei Lavoratori, sembra di ritornare ai tempi in cui lo stesso veniva venduto dal soggetto proponente come qualsiasi altra merce. Ma, come scriveva Luciano Gallino, il “lavoro non è una merce”.
All’inizio della pandemia lo slogan più diffuso che si poteva sentire o leggere, sui balconi delle case così come in televisione, era “niente sarà come prima”; con tale frase si voleva sottolineare la necessità di un passo avanti progressivo, per immaginare una società rinnovata, in grado di mettere al centro il diritto delle persone a vivere una vita degna, dunque riportare l’essere umano dai margini della società al centro. D’altra parte, se si vuole davvero perseguire tale obiettivo, non si può prescindere da un’articolazione di diritti e garanzie, che affermi chiaramente che lavorare non è un privilegio “a qualsiasi costo”, bensì un diritto che in quanto tale preveda limiti e garanzie. Affinché ciò accada, non è più rinviabile un dibattito serrato – tra le componenti politiche, sindacali e la società tutta – sull’introduzione di un salario minimo (come anche riconosciuto in ambito europeo con la direttiva approvata dal Parlamento europeo l’11 novembre 2021) e sul rafforzamento del reddito di cittadinanza, come diritto e non come misura workferistica, a cominciare dall’allargamento dei criteri di accesso e di condizionabilità.
Cookie | Durata | Descrizione |
---|---|---|
cookielawinfo-checkbox-analytics | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Analytics". |
cookielawinfo-checkbox-functional | 11 months | The cookie is set by GDPR cookie consent to record the user consent for the cookies in the category "Functional". |
cookielawinfo-checkbox-necessary | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookies is used to store the user consent for the cookies in the category "Necessary". |
cookielawinfo-checkbox-others | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Other. |
cookielawinfo-checkbox-performance | 11 months | This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Performance". |
viewed_cookie_policy | 11 months | The cookie is set by the GDPR Cookie Consent plugin and is used to store whether or not user has consented to the use of cookies. It does not store any personal data. |